La lenta agonia della Legnochimica

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno IX num. 42 del 23/10/2010)

Rende, 20 ottobre 2010

Una storia emblematica del fallimento della politica di industrializzazione

In un trentennio di attività si sono cumulati enormi quantità di scarti di lavorazione che oggi continuano a rappresentare un problema. Ancora non si riesce a determinare con esattezza se l'area è inquinata o meno. Sono passati otto anni e ancora siamo al punto di partenza. La Conferenza dei Servizi convocata dal Prefetto di Cosenza per l'8 novembre prossimo, dovrebbe fare chiarezza. O assisteremo all'ennesimo rinvio.

Cos’è la Legnochimica in Calabria? Una storia come tante dell’industrializzazione del Mezzogiorno. Una storia che percorre circa mezzo secolo, sempre uguale a sé stessa e a tante altre, contrassegnata da una lunga teoria di fallimenti che sarebbe inutile elencare. Tanti imprenditori hanno tentato di realizzare il proprio sogno di creare un’attività indipendente. Molti prenditori si sono solo affannati a partecipare al grande banchetto della distribuzione dei fondi. Molti truffatori hanno creato montagne di documenti falsi per arricchirsi ai danni della collettività. Il risultato è stato un totale sperpero di danaro pubblico.

Non bisogna però dimenticare che molti sono stati i tentativi seri abortiti per cause diverse e fin troppo note. Nonostante tutti gli sforzi non si è riusciti a creare un tessuto imprenditoriale, poli di eccellenza o distretti industriali. Solo a chiazze si registra qualche successo, ma la Calabria resta tabula rasa.

Di tutti questi esperimenti di industrializzazione, il migliore risultato auspicabile è che non abbiano lasciato traccia, com’è avvenuto nel caso di tanti piccole aziende nate senza un respiro commerciale, mal supportate da un ambiente dove mancava di tutto, dalle infrastrutture ai servizi. Sono state inghiottite dal nulla.

Una traccia rilevante l’hanno lasciata, invece, le molte iniziative che prevedevano la costruzione di manufatti, come i capannoni o il pontile di Lamezia, oggetti mastodontici nati per rincorrere una megalomania industriale e oggi utili per un ideale museo degli errori industriali (e orrori ambientali) perpetrati nel corso degli anni. Si sono sacrificati centinaia di ettari di buon terreno agricolo, sradicate piantagioni di ulivi secolari, distrutti oliveti e vigneti: un vero disastro.

Tanti piccoli imprenditori dotati di buona volontà hanno dovuto cercare altre strade. In prima approssimazione e in assenza di dati al riguardo, si può dire che se vi sono stati sprechi, sono di entità modesta.

Quello che è forse meno noto e appariscente è il ruolo giocato dalle grandi imprese del Nord scese al sole per approfittare delle generose agevolazioni che assistevano i nuovi investimenti nel Sud. Molto spesso si è trattato di imprese di respiro nazionale o internazionale, come la Fiat, la Montedison, la Sir-Rumianca e un lungo elenco di altre. Le grandi truffe, spesso realizzate eludendo la legge o grazie a interpretazioni capziose della normativa coperte dall’omertà dei soggetti che avrebbero dovuto controllare. Uno degli espedienti più diffusi è stato il trasferimento nei nuovi stabilimenti del Sud dei macchinari vecchi e obsoleti, con la scusa della formazione del personale. I nuovi e moderni impianti acquistati con le agevolazioni per il Sud venivano installati nelle fabbriche del Nord, con una produttività molto più elevata per la migliore organizzazione aziendale, operai specializzati e un humus industriale certamente più vivace. Al Sud si chiedeva di essere competitivi con dei ferri vecchi.

La responsabilità del fallimento della politica di industrializzazione nasce proprio dall’atteggiamento assunto da questo gruppo di imprese, che dovevano essere trainanti, creare qui l’humus industriale, un terreno di coltura dove avrebbero potuto nascere e fiorire tante piccole imprese per un effetto indotto dalla richiesta di beni e servizi generati dalla presenza di una grande impresa. Invece lorsignori sono scesi con una mentalità da rapina e vi sono rimasti facendo finta di tenere in produzione quelle fabbriche nate morte per il tempo richiesto dalla legge di concessione, in genere cinque anni. Allo scadere del vincolo tutte hanno pianto miseria, lamentando le difficoltà della produzione, lo squilibrio di gestione, la scarsa produttività degli operai, l’eccesso di burocrazia, la pressione della malavita organizzata. Si è trattato spesso di pretesti, che tuttavia hanno funzionato egregiamente. Un pianto greco per riproporre il solito ricatto: per restare abbiamo bisogno di ulteriori incentivi. Quando il meccanismo si è inceppato poiché non è stato più possibile concedere altre sovvenzioni pubbliche, inevitabilmente interveniva la dichiarazione di stato di crisi aziendale e dopo poco la fuga da Alcatraz. Queste imprese si sono dileguate, sono ritornate nella fitta nebbia dell’ipotetica Padania lasciandosi dietro una scia di delusioni, operai in cassa integrazione e le carcasse delle aziende. Ieri si delocalizzava al Nord, oggi in Romania o in Cina.

La storia della Legnochimica non è molto dissimile. Si tratta di un gruppo piemontese che ha deciso di scendere in Calabria collocandosi in contrada Lecco di Rende un trentennio fa. La società rileva un’impresa per la lavorazione del legname, da cui estraeva il tannino, che operava a Gesuiti di San Vincenzo La Costa e la trasferisce in contrada Lecco di Rende, in pianura. È stata aiutata generosamente: dal Comune. che gli ha ceduto un area di molti ettari a prezzi irrisori, e dai poteri locali, che hanno rilasciato concessioni e nulla-osta di ogni tipo per consentire l’inizio dell’attività produttiva, limitando i controlli allo stretto necessario per non disturbare il generoso tycoon sceso dalla nebbia.

Il fatto che si tratta di una azienda chimica non è affatto casuale, poiché il Sud è stata la grande discarica industriale dove si sono trasferite tutte le aziende più inquinanti, come le raffinerie o appunto le aziende chimiche, tutte operanti in settori in declino, come la siderurgia. E discarica il Sud lo è diventato realmente, per tutti i rifiuti tossici e speciali. Quel poco di benessere è stato pagato a caro prezzo, un prezzo che pagheranno anche le generazioni future per i guasti provocati sull’ambiente.

La Legnochimica non ha adottato una politica “mordi e fuggi”, ma ha continuato a operare per oltre un trentennio. Una resistenza esemplare. Un caso di successo industriale, il suo, poiché nel lungo periodo nessuno è in grado di formulare previsioni attendibili. Solo in apparenza, però. Anche essa ha scientificamente applicato la teoria del ricatto sociale. Periodicamente denunciava una situazione di crisi, minacciando il licenziamento degli operai e la dismissione dell’attività. Solo per caso questo avveniva quando spirava il termine imposto dalla legge di rimanere in esercizio e consentiva all’azienda di decidere liberamente sulle sorti dello stabilimento. La pressione sociale portava alla formulazione di piani di rilancio sostenuti da altre abbondanti sorsate di contributi.

Nell’ultimo scorcio del secolo scorso, si è decisa la costruzione di una centrale a biomasse, con la concessione di un contributo di 40 miliardi di lire (pari a circa 20 milioni di euro odierni). Sembrava una soluzione definitiva per l’abbondanza di prodotti del sottobosco, che rendeva conveniente il funzionamento. Un “coup de genie” che sembrava la quadratura del cerchio tra l’esigenza di un equilibrio di gestione e lo sfruttamento del grande patrimonio boschivo della regione. Si è anche avanzato il sospetto che molti alberi siano caduti per finire nella fornace della Legnochimica, contribuendo alla formazione di quei paesaggi lunari silani prodotti dai tagli a raso indiscriminati. Tutto è passato sotto silenzio in nome dell’occupazione e dello sviluppo industriale: e oggi è troppo tardi per recriminare.

Decorsi cinque anni dalla concessione di quel “piccolo” aiuto, l’azienda denuncia nuovamente uno stato di crisi. Siamo nel 2002, nessuno interviene a promettere nuovi contributi e la crisi diventa irreversibile, con la “solita” conseguenze: la cassa integrazione agli operai, la chiusura degli stabilimenti e la desertificazione industriale. Tutto secondo la nostra normalità. Finiti i contributi, finito il sogno.

La società viene posta in liquidazione e l’area smembrata. Una parte è ceduta al gruppo Pellegrino di Rende, dove si realizza un impianto di selezione rifiuti e una centrale fotovoltaica. La centrale a biomasse viene ceduta alla società Ecosesto spa del gruppo Falck che la ristruttura facendola funzionare fino al febbraio di quest’anno. L’operazione porta nelle casse della Legnochimica 38 milioni di euro. Per inciso, l’impianto è stato completamente ristrutturato e il 18 febbraio 2010 ha ricevuto il riconoscimento Iafr (Impianto a fonte rinnovabile) da parte del Gse per beneficiare del regime dei certificati verdi per 15 anni e la ripresa dell’impianto è prevista per gennaio 2011. L’energia alternativa si è dimostrata un ottimo investimento per la Legnochimica e anche per il gruppo Falck, che con la Solar Energy spa realizza anche una centrale fotovoltaica che sta per entrare in funzione.

Bisogna ricordare in flashback che la presenza dello stabilimento della Legnochimicha si “sentiva”. Nel corso degli anni sprigionava un fetore che il vento di tramontana (o sarà stato il grecale, chissà) provvedeva a diffondere in un raggio di molti chilometri: era un prezzo equo per un’industria che assicurava produzione e lavoro. Inoltre gli scarti di lavorazione venivano accumulati nell’area, in profonde buche o in grandi covoni all’aria aperta.

Con la chiusura dello stabilimento, si sarebbe dovuto procedere al controllo affinché l’area non presentasse forme di inquinamento. Anche l’olezzo sarebbe dovuto sparire. Trattandosi di una impresa chimica sono stati da sempre utilizzati prodotti chimici, acido tannico, solventi di vario genere e scarti di lavorazione che sono stati ammassati in profonde buche, i cosiddetti “laghi”. La fine dell’attività non implica la fine di qualsiasi responsabilità dell’azienda, la quale è tenuta a comunicare all’organo di controllo competente lo stato dei luoghi, corredata dalla dichiarazione di responsabilità che non vi sia alcuna forma di inquinamento nell’aria, nel terreno, nelle falde acquifere ecc. Una dichiarazione che viene fatta attraverso il cosiddetto “Piano di caratterizzazione”. Dietro questa incomprensibile sigla si nasconde un fatto molto semplice: è la dichiarazione delle lavorazioni effettuate, dei materiali chimici utilizzati, degli scarti prodotti in maniera che si possa controllare che i depositi di materiale lasciati alle spalle non siano inquinanti e qualora si rilevasse qualche forma di inquinamento ne sia conosciuta la causa in modo da consentire un intervento rapido e efficace. Chi inquina paga, poiché a suo carico viene posto l’onere di bonifica. Questo è il semplice principio introdotto dal testo unico sull’ambiente. Un proposito lodevole, molto difficile da realizzare. La procedura di controllo si avvia con un’autodichiarazione da parte della stessa governance aziendale che deve depositarlo all’organo competente. Nel caso della Calabria si tratta dell’Arpacal.

Essendo produzioni potenzialmente inquinanti, sarebbe stato opportuno controllare che avessero adottato le cautele necessarie per evitare danni all’ambiente, poiché dopo è sempre molto difficile rimediare. Ciò non è stato fatto poiché lo si considera un ostacolo all’attività imprenditoriale. Con l’intervento a posteriori non si riuscirà mai a rimediare ai danni già prodotti. Un altro aspetto non secondario è costituito dalla circostanza che in genere la chiusura di un’attività coincide con una crisi aziendale e con la conseguente apertura di qualche procedura fallimentare. Sarà allora molto difficile procedere all’eventuale inquinamento con i fondi aziendali, che a quel punto saranno già evaporati. Nel caso della Legnochimica la società è in stato di liquidazione volontaria, ma c’è comunque un indebolimento della governance, della sua capacità decisionale e autonomia finanziaria. Finita l’avventura industriale nel 2002, il fetore (ora solo cattivo perché non vi è più alcuna contropartita al disagio richiesto ai cittadini) continua. E non si tratta di letame, che può essere fastidioso ma innocuo. Per qualche anno la Legnochimica sparisce dal dibattito politico, dall’interesse della stampa e non se ne sente più parlare.

Molti sono gli interrogativi che restano senza risposta. Perché la Legnochimica è stata messa in liquidazione? Per difficoltà del gruppo, per la scarsezza di materia prima, per difficoltà commerciali? I processi di lavorazione erano inquinanti? E cosa dire degli scarti di lavorazione, dei residui della combustione, e così via? L’area ha un aspetto spettrale, con i laghi e i cumuli degli scarti. Al momento della chiusura ci si preoccupa degli operai e la vertenza sindacale tiene banco per mesi. Ottenuta la cassa integrazione per tutti, per alcuni anni il problema viene accantonato, dimenticato. Il capitolo dell’ex Legnochimica è chiuso.

Nel 2008 si scatena un vero e proprio inferno. Un violento incendio scoppia nel cumulo dei materiali ammassati e i vigili del fuoco stentano a domarlo, mentre una nuvola maleodorante di fumo si spande nell’aria. Ritornano gli interrogativi lasciati senza risposta, l’inquietudine della gente che vuole capire a quali rischi è sottoposta e sorgono altre perplessità. Vi sono concentrazioni di malattie anomali, ricorrenze abnormi di manifestazioni tumorali o altre patologie riconducibili alla presenza di materiali tossici nell’area?

Non sono state fatte indagini ad hoc, e quindi non c’è alcuna risposta che si può considerare esaustiva. All’indomani dell’incendio, la società mette subito le mani avanti. Al momento della chiusura dell’attività è stato presentato il piano di caratterizzazione da cui non risultava alcun inquinamento. I controlli disposti dall’Arpacal evidenziano una situazione ben diversa, individuando la presenza di numerosi elementi tossici in misura superiore ai minimi consentiti dalla legge.

Viene indetta una conferenza di servizi per cercare di trovare una soluzione concordata: prefettura, Comune, Asp, Arpacal e naturalmente la società, che però non si presenta.

La latitanza sembra dettata dalla preoccupazione di dover rispondere a qualche domanda imbarazzante, proprio quando riteneva di averla fatta ormai franca. Ciò che preoccupa non è la parcella dei tecnici che dovrebbero eseguire i rilievi. Sullo sfondo la partita che si gioca è quella della bonifica. Un gioco che può costare molto tempo e denaro.

Appare chiaro che il comportamento delle autorità interessate a vario titolo al problema è stato improntato a molta cautela. E continua a esserlo. Tutti tendono a nascondersi dietro l’asetticità burocratica. Chi scrive, chi legge, chi evince, chi richiama il comma x o y. Sono passati più di due anni dall’incendio e nel frattempo non si è fatto nessun passo avanti.

In questo autunno, la vicenda subisce una accelerazione. Interviene la Procura della Repubblica che procede al sequestro di tutta l'area ex-Legnochimica, presumibilmente sulla base di una denuncia da parte di qualcuno finora rimasto nell'ombra, si nomina un perito giudiziale nella persona del prof. Gino Crisci che è stato incaricato di verificare lo stato dei luoghi, l'eventuale presenza di elementi inquinanti e gli eventuali danni arrecati all’ambiente per il deposito dei residui di lavorazione, tuttora sarebbero presenti nel sottosuolo.

Il match continua. Il prossimo round dovrebbe tenersi il 9 novembre nella Conferenza dei servizi convocata dal Prefetto ....


C OP Y R I G H T

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