L'euro in sala di rianimazione

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno IX num. 50 del 18/12/2010)

Rende, 17 dicembre 2010

Tremonti e Juncker propongono l'emissione di eurobond

Passato l'entusiasmo della sua costruzione, con la crisi finanziaria anche l'euro si trova in affanno stretto tra il rischio di implosione e un rilancio politico

La fine di quest'anno coincide con il decimo anniversario del change-over, ma sembra che nessuno ha voglia di festeggiare. Il primo gennaio del 2001, infatti, si è avuta l'introduzione della nuova moneta euro in tutti i paesi aderenti. E' bene ricordare che quello fu il compimento di un processo iniziato molti anni prima, e la nascita ufficiale dell'euro deve essere retrodatata a tre anni prima, con la fissazione dei cambi irreversibili. Questioni che appartengono ormai solo alla storia monetaria.

Se non vi è molta voglia di festeggiamenti per questa ricorrenza, è però una occasione per qualche riflessione sul ruolo e il futuro della moneta unica.

Una prima domanda sorge spontanea. L'euro è stata un successo? Al momento della sua nascita, secondo i sofisticati calcoli econometrici e la valutazione degli operatori, la sua parità con il dollaro era stata fissata a 1,17. La comunità economica americana aveva accolta la nuova moneta con molto scetticismo, arrivando persino alla derisione per la pretesa che essa potesse mai raggiungere un valore superiore a quello della principale moneta mondiale. Alla base di questa avversione vi era la consapevolezza che la forza del dollaro come unica vera moneta internazionale costituiva la principale fonte della ricchezza americana, che riusciva a trasferire sul resto del mondo le sue difficoltà interne. La fosche previsioni della comunità economica americana alimentò una feroce campagna di speculazione finanziaria che portò la moneta europea a un cambio prossimo a 70 centesimi, la metà circa del suo valore teorico. In quei mesi sembrava che dovesse collassare per la sua incapacità di assumere un ruolo negli scambi internazionali. A dispetto della speculazione finanziaria che si è concentrata a più ripresa su di essa spingendola verso il basso, l'euro ha resistito mostrando che non si trattava di una pura finzione, ma ha solide basi economiche: il frutto più maturo di una idea che stenta a trovare la sua forma definitiva.

Oggi, in piena crisi finanziaria, il suo valore è stabilmente superiore a 1,30 sul dollaro e i grandi paesi emergenti come la Cina, l'India e il Brasile detengono quote significative delle loro riserve monetari e degli investimenti finanziari nella moneta europea: l'Unione è diventata una vera e propria potenza monetaria mondiale. Può questo considerarsi un fallimento?

Si potrebbe attribuire alla presenza dell'euro, lo scoppio della crisi finanziaria poiché la sua presenza ha impedito agli Stati Uniti di scaricare sul resto del mondo le sue problematiche interne: senza la presenza dell'euro come terzo incomodo, il Tesoro e la grandi banche americane non avrebbero avuto molti problemi a nascondere le loro difficoltà sugli operatori internazionali.

Tuttavia, la crisi ha messo in nudo i difetti della sua costruzione, acuite dalle difficoltà attraversate da alcuni dei suoi paesi membri. I grandi paesi europei, in primis la Germania, lamentano oggi che sono costrette a pagare il conto della scellerata politica economica perseguita dai cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) che si trovano ad affrontare gravi difficoltà congiunturali. Si paventa la possibilità che essi abbandonino l'euro al suo destino. La Germania potrebbe desiderare di ritornare al suo glorioso e benemerito marco, o costituire l'euro del Nord con i paesi più solidi economicamente, bilanci pubblici sani e rigorose politiche economiche.

Se voltiamo lo sguardo a quanto di è verificato in questo decennio di vita dell'euro, il bilancio tedesco può però definirsi più che positivo. Con l'euro ha potuto godere dei vantaggi di una svalutazione competitiva in una condizione di assoluta stabilità, poiché l'inflazione nel decennio si è mantenuta a livelli talmente bassi come mai conosciuti in precedenza. La svalutazione del marco avrebbe alimentato un processo inflazionistico interno, mentre l'euro a 70 centesimi sul dollaro non ha provocato alcune ripercussione interna. L'aggressività commerciale consentita dalla moneta unica ha permesso alla Germania di affrontare gli investimenti necessari per una unificazione economica, riuscendo in pochi anni a eliminare il divario che divideva l'Est con l'Ovest. Successivamente ha potuto giocare il ruolo di grande potenza economica sostenuta da una moneta che nel frattempo aveva trovato un suo ruolo quale strumento monetario internazionale. Potrebbe la Germania abbandonare l'euro? Da un punto di vista economico sarebbe un vero e proprio disastro, poiché questo comporterebbe una rivalutazione molto significativa della sua moneta con la conseguente perdita del vantaggio competitivo acquisito con la profonda ristrutturazione industriale e finanziaria che l'ha nuovamente portata a esse la locomotiva d'Europa. Il sostegno all'euro è un sostegno al proprio sviluppo, considerando altresì che l'insieme dei paesi aderenti costituiscono un grande mercato per le industrie tedesche.

All'estremo opposto tra i paesi aderenti vi è la condizione della Grecia che ha fatto letteralmente carte false per entrare nel club dei paesi aderenti. Infatti, la Commissione Europea ha apertamente accusato il governo di Kostas Karamanlis di aver alterato i bilanci dello stato per aderire alla moneta unica. Una operazione truffaldina che si è però rivelata molto preziosa perché ha impedito al paese di fare la fine dell'Islanda, costretta alla bancarotta dello Stato e alla riduzione in miseria dei suoi cittadini. La grande opportunità offerta dalla moneta unica è stata utilizzata solo per garantire privilegi alla pletorica burocrazia statale senza alcuna coraggiosa riforma che tentasse di adeguare il sistema produttivo del resto del continente. Una occasione persa che oggi impone una politica di sacrifici che il George Papandreou cerca di adottare, che viene aspramente contestata.

Paradigmatico è anche il caso dell'Irlanda, la miracolata dell'euro. Servendosi degli aiuti comunitari, della stabilità monetaria e di una legislazione fiscale favorevole all'insediamento di attività produttive, ha conosciuto uno sviluppo economico senza uguali nella sua storia, accumulando una serie di errori in campo finanziario e immobiliare. Senza il paracadute dell'euro la sua economia sarebbe crollata con la dichiarazione di default.

Si potrebbe continuare con l'analisi di quanto si è verificato nel resto dei paesi dell'Unione monetaria, come l'Italia, ma qualche conclusione è possibile. L'euro è oggi indispensabile per i paesi deboli, che con il suo abbandono finirebbero nel caos dell'instabilità e dell'inflazione. Lo stesso strumento della svalutazione competitiva non assicura più il tradizionale vantaggio di traino per le esportazioni, poiché il divario di costo per le produzioni di massa nei paesi emergenti è talmente elevato che non è colmabile con il solo strumento monetario, mentre ha scarso peso nei prodotti innovativi. Il suo abbandono non è conveniente neanche per i paesi forti, che diventerebbero comunque più deboli nei confronti dei nuovi protagonisti dell'economia mondiale.

I problemi dell'euro nascono dall'incompiutezza del suo progetto che si è limitato alla costruzione di una fortezza monetaria con la costituzione della BCE e di un sistema bancario in grado di competere sui mercati finanziari internazionali. Vi è un profondo deficit politico, poiché non si è riusciti a costruire un vero e proprio governo economico dell'Europa e il sistema bancario ha assunto un carattere oligopolistico con attori che hanno un respiro al di fuori della operatività degli stati nazionali. Se la concorrenza opera nei mercati finanziari internazionali, le banche multinazionali alimentano la speculazione e attuano una politica creditizia restrittiva nei mercati nazionali. L'aver lasciato la vigilanza sul credito a istituzioni nazionali, come la Banca d'Italia nel caso italiano, ha di fatto consentito a questi giganteschi mostri monetari di operare in piena libertà poiché possono in ogni momento trasferire da un paese all'altro le difficoltà, nascondendo le operazioni poco cristalline. Per ironia della sorte sono stati i paesi come l'Irlanda che più avrebbe avuto bisogno di un sostegno europeo nel momento della crisi ad aver rifiuto il trattato di Lisbona. La sua entrata in vigore in tempi ancora non tempestosi avrebbe consentito di una maggiore incisività nella definizione di una politica anticrisi. Quello era già un un tentativo già abbastanza timido di costruire un governo europeo dell'economia, il successivo aggiustamento approntato in gran fretta è un palliativo ancora più anodino. In questa circostanza avrebbe sicuramente giocato un ruolo importante nel processo di stabilizzazione monetaria, che si cerca di affrontare con strumenti improvvisati e di efficacia alquanto dubbia. Tuttavia essi hanno successo per la grande credibilità acquisita dalla BCE, dalla stabilità delle principali economie europee e dalla convinzione che l'Europa una realtà che non può che scommettere su sé stessa se vuole continuare a competere con i grandi protagonisti dell'economia mondiale.

La proposta Tremonti-Juncker per la emissione di titoli dell'Unione per dimezzare i debiti degli stati aderenti all'Unione monetaria e finanziare i grandi progetti infrastrutturali del continente appare come la più serie e articolata proposta per superare l'attuale momento di crisi e dare un decisivo impulso alla ripresa. Purtuttavia si tratta di una proposta timida e senza alcun contorno di riforme di sistema che potrebbero rappresentare una svolta nella costruzione dell'Europa. Se l'Unione vuole diventare qualcosa di più di una costruzione ideale, deve dotarsi di una seria politica economica e questo può avvenire solo se si limitano in maniera significativa il potere degli stati. Tutti beneficiano dell'ombrello della moneta unica e per questo devono essere chiamati a fare dei sacrifici per conservarla.

L'adozione di parametri seguendo il modello di Maastricht, anche se più rigorosi e restrittivi non costituisce uno strumento sufficiente per ottenere una convergenza verso una politica di rigore necessaria per difendere il valore monetario dell'euro e garantirsi uno sviluppo nei prossimi decenni.

Non si vede per quale ragione limitarsi a consolidare solo in parte i debiti degli stati aderenti, e non spingersi oltre fino a un completo azzeramento del loro indebitamento, il cui ammortamento resterebbe a carico degli stessi, ma con una sensibile riduzione del livello degli interessi. In cambio gli stati si dovrebbero obbligare a una rigorosa politica di zero-budgeting, vale a dire di mantenere in pareggio il loro bilancio senza alcuna deroga. Il sacrificio sarebbe ampiamente compensato dalla stabilità monetario per la sconfitta della speculazione finanziaria ai danni dei singoli paesi, da una maggiore disponibilità di risorse per le singole economie e la possibilità di lanciare imponenti investimenti europei nel campo dei trasporti, dell'energia, della ricerca.

Per poter rendere efficaci queste misure sarebbe necessario istituire un'authority europea per il controllo dei bilanci statali con la predisposizione di norme uniformi di contabilità pubblica per impedire l'adozione di espedienti per nascondere la reale situazione economica e finanziaria.

La grande crisi che stiamo attraversando ha una natura strettamente finanziaria e la responsabilità maggiore è proprio di questi mostri bancari che si sono rivelati molto più attente alla speculazione e alla ricerca esasperata del profitto che attente alle esigenze di sviluppo e di crescita dell'economia e al rigoroso rispetto di una prudente gestione. Le norme di Basilea si sono rivelate efficaci per controllare il rischio creditizio, ma niente è stato immaginato per ridurre il peso della speculazione ed evitare la formazione di bolle finanziarie come si è verificato nel caso della concessione di mutui fondiari a sostegno di operazioni immobiliari di grande rischiosità.

Nessuna banca ha avuto serie difficoltà per le perdite derivanti dai finanziamenti all'economia reale, alla produzione e alle famiglie. Il tracollo è avvenuto per il loro comportamento nei confronti delle grandi società multinazionali che sfuggono a ogni controllo pubblico, si avvalgono di valutazioni compiacenti da parte di società di valutazione che subiscono il loro potere dominante. Il sistema di rating delle grandi multinazionali è affidate ad agenzie succubi di esse: le loro valutazioni hanno consentito solo di appurare che dei valutatori indipendenti sarebbero stato in grado di individuare lo stato di difficoltà con largo anticipo evitando le disastrose conseguenze di fallimenti che hanno polverizzato il risparmio di miglia di risparmiatori. Non sarebbe il caso di istituire una agenzia europea di rating, autonoma e indipendente?

L'Europa riuscirà a superare questo momento di grande crisi se saprà dominare i processi economici, porre sotto controllo i grandi poteri multinazionali per non lasciarsi travolgere dalla speculazione e dalla politica di forze economiche in grado di condizionare le scelte dei governi con pesanti ripercussioni sul benessere di intere popolazioni.


C OP Y R I G H T

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