E adesso tutti al mare

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno X num. 24 del 18/06/2011


Rende, 15/6/2011

Il "Ghe pensi mi" perde la pazienza ...

Porta male evidentemente al Cavaliere invitare gli itialiani ad andare in spiaggia, perché non ci sono andati, hanno preferito mettere quattro al sì al futuro (prossimo)


Porta proprio iella invitare la gente andare al mare. L'illustre precedente che ha provocato l'azzeramento di una intera classe politica non è servito a niente. Ci è cascato anche il Cavaliere. Chissà se tale incauta invocazione non ne provochi il disarcionamento?

È una domanda alla quale è difficile dare una risposta. Molti grandi sommovimenti storici sono stati provocati da cause apparentemente banali, come il ratto della bella Elena. Nessuno poteva prevedere che sarebbe sfociato in una sanguinosa guerra durata più di un decennio. Anche in questo caso la colpa ricade su di una donna, o forse sarebbe meglio dire su di un intero harem. L’Olgettina è stata smantellata, ma le orgettine continuano in altra sede, com’è puntualmente documentato dalle indiscrete intercettazioni. Una delle ossessioni del premier è di ridurre drasticamente i casi in cui i giudici possano servirsi di questo strumento. Non essendo in grado di controllare le proprie pulsioni, si sforza di nascondere le conseguenze delle proprie azioni che viaggiano border-line con il confine della legalità.

Anche nel caso di Flavio Briatore e della focosa Daniela Santanchè vi è stata una violazione della privacy? Potrebbe anche essere. Ci si chiede però come mai Lui si trovi sempre in mezzo infoiato. Una casualità o una propensione naturale a comportamenti quanto meno censurabili?

Come nel caso della guerra di Troia, è ben evidente che Elena è stata un pretesto. La vera posta in gioco era il controllo dell’Ellesponto e dei lucrosi traffici che transitavano per lo Stretto dei Dardanelli per limitarsi a una delle reali cause di quel remoto conflitto.

Nel caso della marocchina Rubacuori, nipote di Mubarak, si è trattato della reiterazione dello stesso scenario di depravazione senile ripetuto “ad libidum” o forse sarebbe meglio dire “ad libidinem”, senza sospettare che un tale comportamento avrebbe potuto provocare uno iato con il suo elettorato e la perdita delle sue capacità divinatorie. Il rabdomante si è ritrovato con una bacchetta biforcuta che non riesce più a leggere cosa bolle sotto il suolo, gli sfuggono le correnti sotterranee. Nelle falde acquifere si stanno riproducendo strani esseri che non rispondono al richiamo televisivo, che si organizzano in rete, chattano nei network e non rispondono più ai richiami ammaliatori dello stregone. Non sono certo le sue arti magiche a costruire il suo potere nella tribù, ma il suo carisma, la credenza riposta dalla collettività nei suoi riti e nelle sue formule magiche. Il dramma è ritrovarsi inerme esposto alle facezie del popolo degli internauti.

Silvio Berlusconi ha incantato un intero Paese per quasi un ventennio con la su forchetta rabdomantica vendendo promesse, sogni, mirabilia, la quadra degli opposti, l’arcana formula della pietra filosofale. Un patrimonio di credibilità sacrificato sull’altare del bunga bunga, sull’inconcludenza dei programmi, l’arroganza della sua corte. I suoi residui cortigiani lo invitano a rientrare nei panni dello stregone, di ripercorrere il cammino e riscoprire la capacità di fare “malie con erbe e con imago”, come direbbe Dante. Ma lo stregone si ritrova nudo, incapace di fronteggiare gli eventi che gli piovono addosso. Il “ghe pensi mi” gli si è rivoltato contro, lo perseguita con tutti i suoi fallimenti, lo insegue tra le rovine dell’Aquila, la spazzatura di Napoli, i profughi di Lampedusa, lo ossessiona con i processi, con le macerie del suo mondo, “la Cricca”, la P4, la defenestrazione di Cesare Geronzi, lo sfaldamento della sua creatura nata su di un predellino, la “comica finale” – come aveva preconizzato Fini - che trova solo adesso il suo epilogo. È una epoca che si chiude. Non un tramonto luminoso, che lascia sperare altre giornate serene, ma un tramonto scuro con un cielo grigio che promette burrasca.

Il Paese si scopre essere diventato un nosocomio governato da due malati. Il premier che si crogiola nella sua saturniasi cercando appagamento nelle prezzolate notti di giovani escort, avviluppato negli incubi dei suoi pensieri finanziari. Il suo vice da mesi si esprime soltanto con parolacce, gesti osceni, pollici verso, pernacchie e castronerie. Il Cavaliere si trascina la sua ombra per evitare imboscate da parte dei suoi fedeli Pasdaran, il Padano si trascina la sua Trota per riceverne gli illuminati consigli e trasmettergli i rudimenti della sua arte con la quale è stato capace di trascinare un intero Paese a rincorrere una chimera, l’idea che i cocci possano essere più preziosi del vaso Ming che li ha prodotti frangendolo. Ma che Ming dici, caro boss padano?

I referendum hanno rotto questo incantesimo. L’effetto è ingigantito dal tentativo di depotenziarne gli effetti minimizzando le questioni sottoposte al voto: la costruzione delle centrali nucleari pesantemente influenzata dall’incubo di Fukushima, le questioni dell’acqua irrilevanti e il legittimo impedimento ormai reso inutile dall’intervento della Consulta.

Non si spiega per quale ragione allora si è cercato con tutti in mezzi di evitare l’espressione della volontà popolare stabilendo una data quanto più lontana possibile, alle porte dell’estate, nella speranza che il caldo e l’afa avrebbero spinto la gente ad andare al mare; con il gioco delle tre carte di un codicillo aggiunto alla chetichella per evitare il pronunciamento sul nucleare considerato trainante rispetto agli altri quesiti, il ricorso in extremis alla Corte Costituzionale, gli inviti a disertare le urne, la rottura del silenzio elettorale da parte del Premier e del Ministro degli Interni per cercare di influenzare l’esito. Tutti questi sono dei chiari segnali di nervosismo da parte di una classe politica che si sente delegittimata, timorosa di affrontare il responso delle urne.

Se così fosse, la domanda più importante che bisogna porsi è ricercare il perché tanta gente ha deciso di andare a votare per delle questioni così irrilevanti. La risposta è allarmante per chi intende esorcizzare il voto. In questa prospettiva, infatti, i quesiti non hanno alcuno specifico significato, ma rispondono alla esigenza profondamente avvertita di inviare un segnale, di esprimere il disagio e il malessere profondo che attraversano un Paese che viaggia alla deriva senza alcuna meta e alcun obiettivo. Si tratta di un evidente segnale d’insofferenza nei confronti di una intera classe politica, di una forte richiesta di discontinuità, di un totale rifiuto di una idea proprietaria della politica. Quell’invito lo ha rivolto l’elettorato a questa classe politica inadeguata rispetto alle sfide che deve affrontare il Paese, chiede a gran voce un rinnovamento reale, un pensionamento della casta, con poche distinzioni partitiche. Jativinni.

E adesso tutti al mare, non solo coloro che hanno votato e vogliano godersi un periodo di relax, ma soprattutto Loro, i Soloni che hanno ingabbiato la democrazia, gli unti del signore che siedono nei palazzi del potere, che non rappresentano che sé stessi e le loro ubbie. Quanti sono sparsi per l’Italia i parlamentari che condividono l’esperienza del nostro senatore cosentino ricco della qualche decina di consensi raccolti nell’unica tornata elettorale competitiva alla quale ha partecipato?

Sarebbe un errore imperdonabile perdere questa grande occasione di rinnovamento la riproposizione della carica dei 101 che hanno preso d’assalto i Palazzi nell’ultimo governo Prodi, con i ministri preoccupati a distruggere individualmente quello che costruivano collegialmente in Consiglio dei Ministri. C’è lo spazio logico e politico per creare una proposta credibile che possa dare risposte al Paese e non poltrone alla casta di sinistra.

I risultati elettorali sono elettrizzanti proprio perché non sono vittorie dell’apparato, ma frutto di organizzazioni spontanee, dell’associazionismo, dei naviganti in rete, ancora naufraghi alla ricerca di una isola identitaria, ma vivi, connessi, partecipativi. Dovunque vince il nuovo, il diverso, l’anti-apparatniki. Si ha grande bisogno di democrazia partecipativa, di sentirsi al centro del mondo, di condividere le esperienze. La difficoltà maggiore è quella di riuscire a trasformare l’anarchia della rete in organizzazione, di creare una struttura, di trovare i rappresentanti nelle istituzioni che non tradiscano la causa alle soglie del Palazzo, prima ancora del loro solenne ingresso.

L’apparizione di questo variegato mondo viola ha colto di sorpresa un po’ tutti per la loro volontà di partecipare, con l’arma dell’informazione personalizzata e dell’ironia, con proposte e allegria al di fuori dei rigidi schemi ideologici e le fobie che hanno impedito discussioni reali e appassionate sugli argomenti. Domani non sarà più sufficiente qualche slogan, ma le proposte saranno il frutto di una logica opensource, che si avvale del contributo di migliaia di persone. La valutazione sarà legata ai contenuti, alla valenza storica e culturale, alla efficacia e alle possibili ripercussioni che potranno avere sulla collettività. Un ritorno alla politica politicante, con il totale rifiuto dei guitti e dei teatranti. Una politica basata sulle attese, sugli annunci e le promesse, su un ottimismo di maniera che nasconde sotto il tappeto la spazzatura.

Il terrore paralizza il Cavaliere e i suoi bravi e li costringe a rispolverare idee vecchie e stantie, nella certezza che nessuno oserà mettere in dubbio la bontà delle loro proposte. Come sempre ogni voce critica sarebbe sommersa dalle voci stridule delle truppe cammellate pronte a intervenire per impedire qualsiasi discussione serena che possa trasformarsi in una critica.

La politica estera costruita sui personali con la triade Putin, Lukascenko, Gheddafi che perde pezzi sulla via della democratizzazione araba mentre si è costruito un muro di diffidenza con i nostri tradizionali partner europei.

Il caso della riforma fiscale è ancora più emblematico di una maggioranza che insegue testardamente un obiettivo senza accorgersi che sa di muffa, puzza di stantio. Un ritorno al passato con l’evocazione del reaganismo fuori tempo che non trova alcuna fascinazione altrove, un disco stonato che ripete stancamente un ritornello d’antan, ignorando l’evoluzione di questi decenni, la concentrazione dei redditi, la sparizione delle classi medie, la difficoltà delle famiglie, l’arroganza dei nuovi ricchi arroccati nel lassismo etico-morale del berlusconismo. I referendum insegnano che non si deve avere paura di difendere i valori, i principi, il pubblico, riscoprire lo spirito di servizio, rivendicare il rigore morale, appellarsi al senso di sacrificio per risalire la china ed uscire dalle macerie di un ventennio disastroso.

Intere generazioni di giovani chiedono spazio per costruire il proprio futuro e garantire il nostro presente. La grande scommessa è la definizione di una politica redistributiva che rimetta in movimento l’economia. La risposta è la riduzione delle aliquote a favore delle classi più abbienti, l’ulteriore defiscalizzazione dei redditi milionari per aumentare il livello d’ingiustizia. A pagare saranno sempre i soliti fessi a reddito fisso, i precari e i senza futuro. Quello che colpisce non è l’impudicizia della proposta, ma la debolezza della risposta a questa ulteriore provocazione. Per favore dite qualcosa di sinistra.

Il mercato si dimostra efficiente laddove esistono condizioni che si avvicinino a quelle ipotizzate dall’equilibrio walrassiano, ma soffre allorquando si tratta di affrontare problematiche sociali. La mano pubblica deve essere pronta ad intervenire in tutte le ipotesi di market failure, come le situazioni monopolistiche, le attività scarsamente produttive ma ad alta valenza sociale come la difesa dei centri montani, la salvaguardia della vita, la difesa dell’ambiente. Lo Stato non è un’azienda, il governo non è un consiglio di amministrazione dove vince la brutalità di Dallas, ma una costruzione sociale basata sulla cooperazione e la solidarietà tra gli individui appartenenti alla collettività a difesa e tutela dei più deboli.

La Calabria ancora una volta si rivela l’ultima nel cogliere queste istanze di rinnovamento, in grave crisi di partecipazione. Il disagio economico-sociale si è trasformato in un disagio psicologico, un ritorno alla rassegnazione che caratterizzava il panorama antropologico della regione sottoposto al giogo dei baroni feudali che il Barrio paragona a’ Lestrigoni campani, i quali “nient’altro aveano lasciato a’ poveri soggetti se non gli occhi soltanto per piangere”. Oggi sono i politici ad aver soppiantato i baroni-Lestrigoni con le loro laute prebende canonicali, gli intrighi e gli intrallazzi, la rete nepotistica clientelare a cui aggiungono l’incapacità di rappresentanza, il pressappochismo delle soluzioni, la scarsa competenza, una professionalità sempre molto lontana dai competi che sono chiamati a svolgere.

La poco esaltante affluenza alle urne in occasione dei referendum è la conseguenza di una condizione di sostanziale immobilismo della rappresentanza che si è verificata nelle elezioni amministrative. Le proposte sono improntante a un conservatorismo di fondo, al blocco trasversale che impedisce qualsiasi rinnovamento reale della politica. La scarsa partecipazione è il segno di una profonda stanchezza che attraverso il corpo elettorale della regione, che non riesce a vedere una luce in fondo al tunnel, poiché qualsiasi alternativa è bloccata da un continuo ritorno al passato, alla riproposizione degli stessi schemi che l’hanno impoverita.

Il nuovo sindaco di Cosenza esprime una discontinuità che è frenata dal blocco storico che lo ha portato alla vittoria, la sua è una giunta dettata e condizionata dagli stessi potenti di sempre, frutto di un sapiente dosaggio nepotistico-clientelare. La gentile Katia non ha costruito il suo incarico sulla militanza sulle orme del genio paterno, ma nasce per cooptazione nepotistica, per assicurare una continuità clanica. Le sue radici sono un fittone profondamente incuneato nel passato, non rappresenta un alito del nuovo vento di rinnovamento che spira per l’Italia, ma una riproduzione del “genus familiae”. La giunta che sta per nascere ha un sapore rétro che riporta indietro e potrebbe subire le conseguenze dei nuovi equilibri che si preannunciano a livello nazionale.

Di là dalle buone intenzioni e delle suggestioni internazionali, il nuovo sindaco deve confrontarsi con un passato che non è ancora passato del tutto, ma continua a vivere e stringere in una morsa il cammino della città frenandone lo slancio innovatore e la capacità di programmazione.

I quesiti referendari erano inutili? “Del legittimo impedimento non importava niente a nessuno” proclama l’unto. Sarà vero. Servivano però tutti a spegnere il “risus stultorum“ sulla bocca che ha appena inondato la platea plaudente delle volgari barzellette di caserma, il ghigno mefistofelico di La Russa, l’arroganza dottorale del professor Brunetta che meriterebbe un periodo di rieducazione (lui si) come scaricatore di balle ai Mercati Generali, il sorriso ironico dell’onnisciente Gasparri, il cui nome è indissolubilmente legato alla legge truffa sulla TV.

Non c’è alternativa a questo pantano politico? Basta far defluire l’acqua per distruggere l’habitat in cui vivono le zanzare anofele che hanno diffuso la malaria sociale nel Paese. Il resto è futuro.


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