Il mistero svelato di Galeazzo di Tarsia

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XI num. 17 del 28/03/2012


Rende, 24/04/2012


Barone del feudo di Belmonte e letterato

Una personalità sdoppiata, un Mister Hyde di giorno, feroce e crudele con i suoi vassalli e dottor Jeckill nella sua rappresentazione letteraria, dove mostra sentimenti nobili e finezza d’animo. Per lungo tempo si è tentato di nascondere la verità dietro la figura dell’omonimo antenato vissuto cira ottanta anni prima


Ci sono voluti secoli per sciogliere il nodo della vita e della personalità di Galeazzo di Tarsia. Secondo l’ultima e definitiva ricostruzione della sua vita basata su documenti autentici ritrovati negli archivi, siamo di fronte a uno sdoppiamento di personalità, come si può leggere in una accurata e recente riedizione del Canzoniere curata da Pasquino Crupi e nella Letteratura calabrese di Antonio Piromalli.

Galeazzo di Tarsia ritrattoGaleazzo nasce a Napoli nel 1520 da Vincenzo e Caterina Persico, nobildonna napoletana. Muore a Belmonte Calabro nel 1553, all’età di trentatre anni trucidato in una rivolta antifeudale. Francesco Bartelli, il primo che trovò prove documentali sulla sua vita scrive che “nacque in questa città di Napoli proprio ala strada del Segio di Capuana nel 1520. Anno, questo desumibile dalla “pratica di legittimazione e successione”, febbraio 1536, nel feudo di Belmonte di Galeazzo nella quale si legge che egli a quel momento aveva “circa sedice anne”.

Pasquino Crupi scrive che il padre nacque intorno al 1459 e fu “persona colta, membro dell'Accademia cosentina ed intimo amico del celebre Aulo Giano Parrasio”; fu il suo primo maestro negli studi umanistici che completò da autodidatta.

Era il primo di sei figli (Galeazzo, Tiberio, Cola Francesco, Diana, Lucrezia, Livia) e per diritto di maggiorascato ereditò il feudo di Belmonte nel 1530, all’età di dieci anni e molto precocemente dimostrò di volerne prendere possesso con tutti i privilegi del suo rango. Trascorse la sua giovinezza tra Belmonte e Cosenza.

Nel 1541, all’età di ventuno anni sposò Camilla Carafa, sorella del conte di Mondragone, dalla quale ebbe una figlia, Giulia o Juliella, che restò orfana molto presto prima della madre, morta nel 1549 quando lei non aveva ancora sette anni, e qualche anno dopo anche del padre, quando decise di chiudersi in convento a Cosenza, dove non vi rimase tuttavia a lungo.

Galeazzo ebbe molti relazioni libertine, e usò e abusò delle donne del suo feudo fino allo stupro e alla violenza estrema, arrivando a mutilare le sue vittime. Da una di queste relazioni ebbe una figlia, Claudiella, di cui non si hanno – fortunatamente per lei - altre notizie.

Amò anche la nobildonna Vittoria Colonna, più vecchia di lui di trent’anni essendo nata a Marino nel 1490. Rimasta vedova di Ferrante D'Avalos morto nel 1525, vagò di convento in convento fino alla sua morte nel 1547, come afferma Crupi.

Secondo Pietro Napoli-Signorelli, il quale scrive nel 1810, “il Tarsia cosentino si mostra castissimo, platonico amante della celebre Vittoria Colonna marchesana di Pescara morta nel 1547, né pare che fosse a lei sopravvissuto niun monumento del di lui dolore nelle sue rime”. La pudica ricostruzione di Napoli-Signorelli contrasta palesemente con il carattere dispotico, violento e pruriginoso di Galeazzo, che difficilmente si sarebbe accontentato di un amore contemplativo, un mondo che apparteneva unicamente al suo immaginario letterario.

Pietro Ercole Colonna scrisse (nel 1840) una accurata sua biografia, nella quale ricordava che “le chiome di Vittoria Colonna essere state di un biondo dorato". “Di che Galeazzo da Tarsia, in quel suo Canzoniere che per la nostra Colonnese dettava, lasciò in più luoghi manifeste testimonianze, come colà dove disse:

Né chiome d’oro più, né ardenti soli / temea;

e altrove, quando cantò:

… Le trecce d’or, che in gli alti giri,
non è ch’unqua pareggi o sole o stella;

o narrava che il sole e la sua donna gli parvero:

Ambi con chiome d’or lucide e terse.

La gentilezza d’anima che traspare dai suoi versi contrasta violentemente con il suo comportamento. “Questi, però, si iniziò subito ai modi di vita dispotici assai comuni fra i baroni meridionali e fin dal 1547 è accusato di soprusi e violenze dalla popolazione di Belmonte, feudo del quale egli era diventato erede a dieci anni”, scrive, infatti Piromalli. “Con la poveraglia, sparsa nel feudo di Belmonte, fu spietato. Carcerò ingiustamente molti dei suoi terrazzani, altri vessò, parecchi mutilò a colpi di spada; e si macchiò anche di delitti sessuali”, aggiunge Crupi.

Il castello di BelmonteEgli fu uno dei lestrigoni, i giganti antropofagi che distruggono la flotta di Ulisse, citati da Gabriele Barrio nel suo “planctu Calabriae”: “questa regione ridonda anche di mostri, voglio dire di regoli e di tiranni, i quali la saccheggiano e la scorticano ed a guisa di lestrigoni campani si pascono giornalmente, per una sete inestinguibile e per una inesausta avarizia, de’ travagli de’ mortali; essi hanno usurpato le selve, le balze, le terre, i pascoli, i fiumi, la caccia, tutti in somma i diritti de’ popoli”. Trajano Boccalini aggiunge come “il floridissimo regno di Napoli fosse condotto all’ultima dissoluzione pe’ rubamenti de’ soldati, pe’ latrocini de’ giudici e per gli scorticamenti de’ baroni”.

Gli aragonesi, con Alfonso I il Magnanimo avevano cercato di limitare lo strapotere dei baroni con una serie di prammatiche, a cominciare da “De baronibus et eorum officio” del 1466 e altre successive, istituendo il Sacro Regio Collegio per giudicarne l’operato. Un istituto che avrebbe potuto svolgere un compito molto significativo per migliorare la qualità della vita pubblica del regno, ma che ebbe vita difficile e si limitò a condannare pochi casi clamorosi, come quello di Galeazzo. I baroni utilizzarono ogni mezzo per ostacolarlo, ma vi era qualche giudice onesto e coraggioso, come Tommaso Grammatico, nato ad Aversa nel 1478 e morto a Napoli nel 1556 alla veneranda età di settantotto anni: di lui scrive Ludovico Antonio Muratori che fu un grand’uomo, e per la gran dottrina fu fatto giudice della Vicaria a 24 anni.

L'orrore pote' più della paura e quella miserabile umanità, giocata come oggetto parlante, denunziò e portò Galeazzo di Tarsia dinanzi al Tribunale del Sacro Regio Collegio”, dice Pasquino Crupi.

Egli fu condannato, e la sentenza fu redatta da Tommaso Grammatico, il cui incipit è: “Magnificus Galeatius de Tarsia Calaber vero ad querelam quamplurium suorum vassallorum inquisitus per Magnam Curtam Vicariae, quod male & pessime eos tractavit”.

Le accuse erano pesanti, le prove schiaccianti: “Male pessime ipsos tractabat, multos et quamplures ex eis minus debite carcerando, alios iniustissime torquendo; nonnullos gravibus ac atrocibus iniuriis afficiendo, aliis quampluribus evaginatis ensibus propria manu volnera non levia inferendo … et cetera faciendo quae honestatis causa silentio praetereunda censui”.

Davide Winspeare che scrisse un ampio trattato sugli usi ed abusi sessuali agli inizi dell’Ottocento scriveva che “fra i tanti esempi che possono scegliersi di diritti assurdi conceduti o confermati fra noi, v’è in una inquisizione fiscale del decimo quinto secolo verificato e confermato il “jus foeminarum”. Questo diritto era generalizzato nei feudi, ma tenuto nascosto per un senso di pudore e per non costringere la Chiesa a prendere posizione. “Un tale diritto commutato in denaro, fu trasferito coi contratti posteriori di vendita sino agli ultimi anni del feudo, ed è stato sino a’ nostri tempi nel suo pieno vigore” aggiunge il Winspeare.

A volte appare come un diritto di scegliersi la sposa, come nel feudo di Romagnano in Principato Citra (oggi provincia di Foggia): Habet dictus comes ius foeminarum, quae maritantur extra terram, a quibus recipit pro exitura tarenos duos.

A volte appare in forma esplicita come jus primae noctis. Ad esempio nell’universitas di Castiglione in Otranto viene registrato il diritto consuetudinario del Barone che esigeva “a sponso quolibet asses quinquaginta si prima nuptiarum nocte in Castilione cum sponsa sua non commoratus fuerit”.

Una forma particolare era lo “jus cunnaticum”, la facoltà del barone di disporre a suo piacimento delle donne del feudo. Ciascuno poteva “comprarsi” la pudicizia delle proprie donne (figlia, moglie, nuora) con una tassa annua, con la quale il barone si impegnava a non pretendere più prestazioni sessuali. Era pur sempre una facoltà concessa dal barone, il quale poteva decidere di far valere il proprio “diritto” per il mancato pagamento del tributo o per un suo capriccio. Ancora più assurdamente “i diritti per la garanzia e per la protezione delle persone erano nel loro vigore; quelli sulla pudicizia delle donne erano, come si è detto, per lo più commutati in altrettante capitazioni”, aggiungeva Davide Winspeare. Gli agnelli erano affidati al lupo.

Monumento a Galeazzo di TarsiaÈ del tutto sicuro che questo jus era diffuso in Calabria. Riferisce il Winspeare: “Nell’apprezzo dell’anno 1750 fatto dal tavolario Francesco Attanasio dello stato di Russano, viene detto: “Possiede ancora la baronal camera suddetta il jus del vassallaggio detto della cunnatica, per il quale è solito il barone esigere da ciascheduno de’ vassalli casato, e con moglie vivente annui carlini quattro, o che siano casati, o che in atto abitano in detta Terra, e dalle vedove annui carlini due, e tenendo ciascheduna di queste il figlio maschio, paga detti carlini due l’anno fintanto che detto suo figlio giunge alla maggiore età, da quel tempo in avanti non è più tenuta la madre un tal pagamento, ma devesi quello fare dal detto di lui figlio, ma devesi fare dal detto di lui figlio, siccome pagavasi da suo padre”.

Tra le tante angarie e parangarie che erano costretti a subire, certamente questa era la più odiosa e dava origine a frequenti rivolte con conseguenti tirannicidi: il malcapitato barone veniva sottoposto ad atroci torture e morti orribili. Ancora si ha memoria a Mongrassano, di un barone di Serra di Leo seppellito vivo con una cannula in bocca per prolungare la sua agonia … e la gente ascoltava soddisfatta i suoi rantoli!

Galeazzo si avvalse del “jus utendi ac abutendi” delle “femmine” del suo feudo come una sua proprietà personale, con la forza dell’uso, la violenza sulle vittime prescelte e la creazione di un clima di vero e proprio terrore per impedire la reazione dei familiari. Non era il solo, poiché non faceva che continuare una tradizione di famiglia, sebbene con una violenza e una ferocia molto maggiore. Il Tribunale era stato tollerante proprio in considerazioe ne del fatto che in fondo non aveva fatto altro che esercitare un suo diritto ... magari esagerando un po’!

Il suo comportamento, e quello dei suoi fratelli, non poteva che generare odio e risentimento nella popolazione e un sordido desiderio di vendetta.

Il tribunale della Vicaria condannò Galeazzo a una pena molto mite, fu prima chiuso nel carcere di Castel Capuano, dove vi rimase solo qualche mese e poi inviato al confino a Lipari per qualche anno; fece tuttavia molto scalpore la perdita delle prerogative feudali che costituiva un vulnus dei diritti baronali.

Ritornato nel suo feudo di Belmonte volle vendicarsi sui suoi vassalli aumentando i soprusi e gli abusi, la violenza e l’efferatezza delle sue azioni criminali.

Nel 1549 Galeazzo è nuovamente accusato di avere organizzato con “forasciti et delinquenti” e insieme ai suoi fratelli Cola Francesco e Tiberio – socii sceleris, gravissime azioni di rappresaglia e atti di brigantaggio contro la città di Amantea, dove si resero protagonisti nei primi giorni di marzo di “insulti, violentie et homicidi” a danno della popolazione inerme. Nello stesso anno morì la moglie ed egli fu confinato a Napoli, per ritornare nel suo feudo di Belmonte per pochi giorni, senza saper frenare i suoi istinti, tanto da essere condannato a un nuovo esilio a Lipari. Per potersi riabilitare, chiese di partecipare alla guerra di Siena unendosi con l’esercito di Carlo V di Spagna. Fu graziato e reintegrato per l’ennesima volta nel suo feudo, provocando l’ira e apprensione tra la popolazione di Belmonte, che nel 1553 si ribellò e, come detto, lo trucidò. Della sua morte non si hanno notizie, ma non si è certo trattato di un caso di eutanasia, ma gli fu riservato un trattamento di una crudeltà pari a quella da lui inflitta ai suoi sudditi.

Non ebbe pace neanche dopo morte per effetto delle sue volontà testamentarie. Con il suo primo testamento del 1551, “istituisce et fa suo herede universale sovra tucti soij beni mobili et stabili burgensatici et feodali” suo fratello Tiberio. Nel successivo del 24 settembre 1552 è nominata erede universale Juliella de Tarsia sua “legittima unica et benedicta figliola sopra tutti li beni mobili et stabili burgensatici et feudali” e, fin quando elle non si sposerà, dovranno “esser gubernatori de dicta figliola” il signor Francesco de Tarsia, suo zio, e dopo la sua morte, il Signor Giovanni Pietro suo figlio”. Una disposizione che per la povera Juliella fu una condanna a morte. Suo zio Tiberio non poteva sopportare di non ereditare il feudo, la trascinò fuori dal convento, dove si era rifugiata, la stuprò e la costrinse a sposarlo per diventare erede legittimo, con la complicità della Chiesa che diede il suo consenso a questa unione tra consanguinei, severamente vietato dal Codice Canonico.

La poveretta morì l’anno successivo, nel 1554 non ancora ventenne, mentre Tiberio governò il feudo con comportamento altrettanto dispotico fino alla sua morte avvenuta a Napoli nel 1570.

La sua vita dissoluta e la gravità dei diritti stese un “velame oscuro”, un imbarazzato silenzio e dopo la sua morte fu dimenticato per circa un sessantennio. Si conosceva solo un sonetto nella raccolta di rime in lode di Donna Giovanna Castriota stampata nel 1559, dove appariva anche una rima composizione del fratello Tiberio.

Il nucleo più importante del suo canzoniere fu pubblicato solo nel 1607, per opera di Giovambattista Basile, letterato e scrittore di corte cui si deve la prima raccolta in Europa di fiabe popolari, “Il Pentamerone. Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille”, scritto in napoletano, da cui trassero spunto i fratelli Grimm per racconti come Cenerentola e La bella addormentata nel bosco.

Dopo il Basile furono molti a occuparsi di Galeazzo di Tarsia, cercando di nascondere la sua figura dietro quella di un suo avo omonimo citato dal Muratori (forse suo nonno): Galasso de Tarsia Cosentino Barone di Belmonte fu reggente nel 1510” del Sacro regio Collegio della Vicaria, molto stimato e che conosceva bene Tommaso Grammatico.

Fra i tanti che hanno scritto su Galeazzo (Bernardino Tafuri, Angelo Zavarroni, Camillo Minieri Riccio), il più interessante è Salvatore Spiriti (1712-1776), che fu consigliere del Supremo Magistrato del Commercio e giudice della Gran Corte della Vicaria, la stessa che aveva condannato Galeazzo. Il Barone Spiriti poteva accedere agli uffici e trovare la documentazione necessaria per far luce sul personaggio.

Egli sostiene che nacque “da Giacomo dell'antica e nobile famiglia di Tarsia Signor di Belmonte, nacque verso il 1476 Galeazzo, che dotato non meno di scorto ingegno per le lettere, che di robustezza di corpo per gli esercizj della guerra, si rende' molto caro agli aragonesi Re, suoi signori, in servizio de' quali, appare da alcuno de' suoi sonetti, che avesse fatto de' viaggi fuori d'Italia”.

“Egli fu onorato del grado di Reggente della Gran Corte della Vicaria, ed esercitò questa carica con lode di saggio, ed incorrotto Ministro”. E più oltre aggiunge: “Non deesi tralasciar poi di dire, che taluni an creduto questo Galeazzo esser quell’istesso, di cui racconta il Consiglier Grammatico nelle sue decisioni, che, convinto di gravi delitti, fosse stato relegato nell’Isola di Lipari. Ma dall’epicedio che Niccolò Salerni scrisse in morte del nostro, chiaramente si appalesa che l’un dall’altro fosse diverso”.

Lo sdoppiamento di personalità che fu colto da Benedetto Croce che avverte di non considerare Galeazzo solo come un bruto dimenticando “tutto l’altro che deve esser stato in lui: quel che di meglio egli, animo certamente non volgare, poneva, forse negli atti o nei propositi della vita; quel che agitava e riscaldava il suo petto e che si sente nei versi che soli sono rimasti”.

Di lui rimangono solo pochi sonetti raccolti in un canzoniere, poiché si pensa che molto andò perduto nel lungo buio seguito alla sua morte, che tuttavia fanno di lui il miglior petrarchista del Cinquecento. Fu molto apprezzato da Foscolo e Leopardi i quali copiarono alcuni versi. L’ermo colle che appare in una delle più note poesie leopardiane è una reminiscenza di Galeazzo di Tarsia.

Grandi furono i suoi meriti letterari, tuttora da scoprire e valorizzare, che non possono giustificare la sua vita scandalosa, violenta condita di abusi, angarie e ogni sorta di efferati delitti.

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“Già corsi l'Alpi gelide e canute,
Mal fida siepe a le tue rive amate;
Or sento, Italia mia, l'aure odorate,
E l'aer pien di vita e di salute.

Quante m'ha dato Amor, lasso! ferute,
Membrando la fatal vostra beltate,
Chiuse valli, alti poggi ed ombre grate,
Da' ciechi figli tuoi mal conosciute!

O felice colui che un brieve e colto
Terren fra voi possiede e gode un rivo,
Un pomo, un antro, e di fortuna un volto!

Ebbi i riposi e le mie paci a schivo
(o giovanil desio fallace e stolto!);
Or vo piangendo che di loro son privo".

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