Salvatore Spiriti e la battaglia contro la manomorta ecclesiastica

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XI num. 19 del 12/05/2012


Rende, 8/05/2012


Ha rilanciato l’Accademia Cosentina

Patrizio di nobile famiglia cosentina, è stato uno degli illuministi della scuola di Antonio Genovesi nel Settecento. Studiò giurisprudenza a Napoli, ma i suoi interessi erano in Calabria, dove cercò di vivacizzare la vita culturale e difendere lo spirito laico.


Salvatore Spiriti, il primo di sei figli, nacque il 12 novembre del 1712 a Cosenza, dove morì il 28 marzo 1776, all’età di 64 anni. La sua famiglia aveva posseduto il feudo di Casabona con il titolo di marchese nei secoli XV e XVI. Nel 1694 dovette venderlo per una congiuntura sfavorevole che la costrinse a contrarre un esorbitante ammontare di debiti. Tuttavia mantenne un discreto benessere, e nel 1705 era riuscita a riacquistare il feudo rurale di Ischito (o Schito) in Sila.

Da giovane fu mandato a Napoli a studiare con buon profitto giurisprudenza nel “Seminario de’ nobili”, come era tradizione per i giovani aristocratici cosentini.

Nel clima di acceso scontro tra gli Asburgo d’Austria e i Borbone per la successione al trono di Napoli, Salvatore Spiriti parteggiava per i primi e scrisse, “De borbonico in Regno napolitano principatu” per sostenere la causa degli Asburgo. Con l'ascesa al trono di Carlo di Borbone nel 1734 egli fu processato ed esiliato a Lipari perché sospettato di nutrire tuttora simpatie verso il governo austriaco. In suo favore intervenne lo zio Francesco Antonio Cavalcanti, e lo fece rilasciare convincendo gli spagnoli che quel libello fosse frutto di intemperanza giovanile e garantendo per il presente la sua fedeltà alla corona. Convinse anche Filippo V, re di Spagna e padre di Carlo, di attribuire a Salvatore Spiriti il titolo di marchese per il suo impegno giusnaturalistico a sostegno della politica anticlericale instaurata dal marchese Tanucci, la figura più influente del governo carolino. Riabilitato rientrò nei ranghi dell'aristocrazia napoletana e ritornò nella capitale come avvocato di successo. Nel 1751 fu nominato governatore di Amalfi, e in seguito di Sorrento e Pozzuoli. Ebbe importanti incarichi governativi, prima come consigliere del Supremo Magistrato del Commercio, e quindi nel 1762 fu nominato giudice della Gran Corte della Vicaria per arrivare a far parte della Camera di S. Chiara, il più importante organo giurisdizionale napoletano.

Iniziò a scrivere molto precocemente. All'età di 16 anni scisse il poema “Il Giosuè” che non fu mai pubblicato, per poi riprendere le sue fatiche letterarie molto più tardi con una poesia celebrativa “Per l'avventuroso nascimento di S.A.S. Filippo Antonio di Borbone Principe reale delle Due Sicilie”, che appare in appendice a “Memorie degli scrittori cosentini”. Pubblica la traduzione dell'Alcone, o sia “Del governo dei cani di caccia” di Girolamo Fracastoro, e poi “De Machina electrica”, “Osservazioni sulla Carta di Roma”, una dotta disquisizione giuridica sulle dispute dinastiche che di disputavano nelle corti di Europa ed erano all'origine di contese dottrinarie e sanguinose guerre.

Quale giudice della Vicaria viene a conoscenza delle vicende di Galeazzo di Tarsia e ne apprezza le rime pubblicate da Giovan Battista Basile. Egli lo considera il più grande lirico del Cinquecento, continuatore del Petrarca e cerca di promuoverne la figura nel panorama culturale europeo, rifiutandosi di identificarlo con l'autore dei nefandi delitti testimoniati nei processi ritrovati negli archivi della Vicaria.

Non perse mai i contatti con la natia Cosenza, dove sposò Anna Giannuzzi Savelli dei baroni di Pietramala, ma il suo matrimonio non fu rallegrato dalla gioia di figli.

A Cosenza si dedicò al rilancio dell'Accademia Cosentina de' Costanti (oggi Accademia Cosentina), ormai ridotta a ben misera cosa per l'incuria dei soci, gli scarsi mezzi e la ridottissima attività, avendo perso il lustro e la fama di cui aveva goduto fin dalla sua fondazione nei primi anni del Cinquecento. Per rilanciarla raccolse e pubblicò le “Memorie degli scrittori cosentini”, molti dei quali erano stati soci dell'Accademia. L'opera fu dedicata al ministro Tanucci, chiedendogli con duecento anni di anticipo l’istituzione di una università a Cosenza. “In quest’opera se non si dimostra gran scrittore, almeno ci porta argomento di sua varia erudizione in sì fatte cose. Sembra di essere imparziale, ché non trova difficoltà di scoprire i difetti, e le recondite piaghe degli scrittori, se non che le volte largisce lode soverchiamente. Umile, ma purgato nello scrivere. Quello che gli si potrebbe rimproverare si è che le volte si dà studio di scrittori di nessun merito”, scrive Nicola Leoni.

Pasquino Crupi riconosce a Salvatore Spiriti “uno scrupolo filologico encomiabile”, ma non sempre le notizie raccolte sono accurate e gli manca la visione d'insieme del panorama letterario cittadino. Ci si trova di fronte a uno schedario di autori, molto lontana da una storia letteraria.

Alla sua attività di intellettuale, affiancò l'impegno giusnaturalista a sostegno della rivendicazione della laicità dello stato che contrapponeva i Borboni al Papato. Per disposizione di Bernardo Tanucci era stato abolito l'obbligo della chinea, istituita fin dal 1479 per convenzione tra Sisto V e Fernando d'Aragona, che diede origine a un lungo conflitto che si concluse con un concordato.

In quel tempo, Napoli era un centro culturale attivissimo, vi operavano lo storico Pietro Giannone che nel 1721 pubblica la “Istoria civile del Regno di Napoli”, il filosofo Giambattista Vico, che pubblica i “Principi di una scienza nuova” nel 1723, giuristi famosi come il salernitano Costantino Grimaldi. Vi era un grande fervore e accesi dibattiti sui testi dei grandi pensatori europei Cartesio, Spinoza, Blaise Pascal, Giansenio, Montesquieu, il quale espresse opinioni entusiastiche su Giannone e la sua opera. Nella capitale Salvatore Spiriti conosce Giambattista Vico, ricevendone attestati di stima, ed esercitò la carriera forense che lo consacrò come uno dei principi del foro napoletano prima di diventare uno dei dignitari del regno.

Era ancora viva l'opera di un altro animatore della vita culturale napoletana, il cosentino Gian Francesco Gravina (morto nel 1718), professore di diritto canonico, il quale aveva fondato a Roma l'accademia dell'Arcadia insieme con Cristina di Svezia, riproponendo una rivisitazione dei classici rispettandone l'impostazione filologica e la contestualizzazione storica.

Salvatore Spiriti fu tra coloro che nel suo tempo a Napoli mantennero maggiormente in vita le istanze laiche emerse nel gruppo di Gaetano Argento e più compiutamente teorizzate e sostenute da Pietro Giannone. Il loro obiettivo era quello di contestare l'ingerenza della Chiesa nel governo, eliminare la manomorta e la giurisdizione ecclesiastiche, il monopolio clericale dell'educazione e l'abolizione degli ordini monastici, che si erano trasformati in puri centri di potere.

In quest’ottica diede alle stampe il Trimerone, scritto sotto forma di dialogo, nel quale contestò con toni ironici e sferzanti il diritto della Chiesa di acquistare beni sia immobili che mobili. Raccolse altresì una serie di poesie ironico-satiriche sotto il titolo “Mamachiana per chi vuole divertirsi” per controbattere le tesi del padre domenicano Tommaso Maria Mamachi che difendeva la manomorta ecclesiastica e il diritto della Chiesa di acquistare e ricevere in donazione beni mobili ed immobili.

“Mi dichiaro inoltre di non poter essere altrimenti vero amico di tutti gli ordini ecclesiastici, e massime dei Regolari, che col desiderar loro una riforma, nell’età degli iniziandi, nel numero degl’individui, nell’uso, e quantità degli averi, negli studj (che è il punto principale) e nell’osservanza dei rispettivi istituti; la qual riforma giovi nommeno ai buoni che ci sono, col chiudere la bocca ai maldicenti, i quali fan di tutt’erba un fascio; che a tutti gli altri, col rendergli attivi, utili, rispettabili, e degni del sacro ministero che professano”, scriveva lo Spiriti.

Il clima politico era decisamente cambiato, poiché lo Spiriti e il folto gruppo di intellettuali giusnaturalisti fu consentito di svolgere la loro attività senza subire alcuna conseguenza. Basti ricordare la triste vicenda di Pietro Giannone. Scomunicato dall'arcivescovo di Napoli, non riuscì a trovare pace in alcun luogo, fu perseguitato nel suo rifugio a Vienna, e poi a Ginevra e fini la sua vita in carcere a Torino nel 1748 dove era stato attirato con un tranello dai Savoia che volevano ingraziarsi la gerarchia ecclesiastica.

Ben altro esito ebbe la battaglia giusnaturalista che fu affiancata dalle innovative idee professate da Antonio Genovesi e dalla sua scuola. Con il catasto onciario, alquanto timidamente ma si trattava di violare un principio secolare, si sottopose a tassazione il patrimonio ecclesiastico. Dopo il terremoto del 1783 furono soppressi molti ordini e il loro patrimonio fu incamerato dallo stato per distribuirlo ai contadini. Per la loro gestione si istituì la Cassa Sacra generando una forte opposizione da parte della gerarchia ecclesiastica. I risultati non furono quelli attesi, ma si mise in moto un meccanismo che portò una profonda trasformazione economico-sociale del Regno.


Brieve contezza intorno all’Accademia Cosentina

di Salvatore Spiriti

In da che Bessarione Arcivecovo di Nicea nel Consiclio di Firenze adopratosi ferventemente per la concordia della sua Greca Chiesa con la latina, e incorso nella indignazione de’ suoi Nazionali(1), meritò da Eugenio IV, pontefice gli onori del Cardinalato; egli, fermata la sua dimora in Italia, promosse in Roma, ed in Vinegia con tanto ardore lo studio delle Greche lettere, che ben tosto le più belle Arti e Scienze si videro di Grecia in Italia aver fatto passaggio; conciosiacchè adunandosi assai sovente in sua casa i più dotti italiani di quel tempo, e molti greci fuggiti dal loro paese, allorachè avvenne la perdita di Costantinopoli, abbattuta e presa dal famoso Ottomano Mehmet Secondo, s’incomincirono a gustar le dolcezze del vero sapere, attinte non dalle torbide cisternuole degli Arabi, ma derivate da’ puri cristallini fonti di Atene. E facendo que’ nobili ingegni diligente studio su Greci autori, e specialmente sopra Omero, Platone ed Aristotele, e di continovo fra se le loro fatighe comunicando, si venner costantemente a comprendere i veri sentimenti degli antichi maestri con infinito giovamento della Letteraturia Repubblica.

Conosciute adunque (2) molto profittevoli le adunanze de’ dotti, e l’uso di comunicare scambievolmente i loro studj, si promosse con maggior calore una tale lodevolissima costumanza. (3) Quindi Pomponio Leti in Roma, Lorenzo de’ Medici in Firenze, e Antonio Panormita, seguito poi dal Pontano in Napoli, eressero le loro Accademie, non annoverandoci persone, che per ingegno e per lettere non fossero ragguardevoli, e formarono savie leggi, onde avessero a regolarsi. Credettero il Leti, e ‘l Pontano, che a chiunque pretendea di esservi registrato, fosse d’uopo, non altrimenti, che i Frati, dimostrare di essersi spogliato delle priemiere vaghezze, e di aver fatto proponimento di dars’in tutto a’ buoni studj: onde in brieve si udirono gli Antonj in Aonj, i Giovanni in Giani, i Pieri in Pierj, ed altrettali cangiarsi. Questa costumanza però riuscì a più d’uno, ed allo stesso inventore non poco increscevole; poiché per tal cangiamento di nome il Platino, il Callimaco, e lo stesso Leti con altri (4) caduti nello sdegno del sospettoso Pontefice Paolo II della famiglia Barbarigo Viniziana, ebbero gravi molestie a durare, e Marcantonio Majoraggio fu costretto a difendersi nel Senato di Milano, di aversi cangiato nome, (5) con una Orazione, che gli servì di pretesto, a pubblicar le glorie della sua schiatta. Dopo lo esempio delle tre mentovate, sursero in poco tempo innumerabili Accademie per tutta Italia,(6) con diverse stranissime denominazioni, di Gelati, di Umorosi, d’Infiammati, d’Indomiti, d’Imperfetti, di Lesinanti, di Arrischiati, di Storditi, di Oscuri, e somiglianti, che porsero occasione(7) a’ forestieri di oltremodo beffarsene. Non fu delle ultime la città nostra a seguir tale usanza, e ad innalzare la sua Accademia, la quale sebben debba i suoi informi principj (8) a Giano Parrasio, che da Roma alla Patria tornato in quel poco di tempo, che sopravvisse, rincorò i suoi cittadini allo studio delle buoni arti, e tenea sovente in sua casa eruditi ragionamenti; pur tuttavia da Bernardino Telesio il filosofo, e da Sertorio Quattromani conobbe il suo stabilimento, e progresso.

Conciesiacchè costoro coll’esortazioni, e coll’esempio spinsero i migliori ingegni di quella età a radunarsi in alcuni destinati giorni, ed a comunicare tra loro in materie di lettere. Onde quas’in uno stesso tempo si vider surti nell’Accademia Cosentina sottili filosofanti, giudiziosi Medici, dotti giureconsulti, e leggiadri poeti, per li quali onorato grido di Lei in tutto il Regno, per la Italia, e fuori si sparse. (9) Pensò Giovanni Paolo Aquino di seguir la usanza delle altre Accademie, adattando alla nostra un distintivo di nome allegorico, e capriccioso: ma con sommo giudizio il Quattromani ne lo distolse, dicendogli, che con altro titolo, che di Accademia Cosentina, non dovesse appellarsi; parendogli tutti gli altri improprj per adunanze di uomini applicati a’ buoni studi da senno.

Questo proponimento però non ebbe del tutto il suo effetto, perché nel 1591(10) essendo eletto Arcivescovo di Cosenza Monsignor Giovan Battista di Costanzo, e facendosi conoscere amatissimo promotore di essa nostra Accademia, parve a lui, per corrispondere con qualche segno di gratitudine alla benevolenza, e al merito di quel prelato, di prendere da di lui casato il suo distintivo, che di presente ritiene col titolo di Accademia Cosentina de’ Costanti. Ella ha il suo principe, il suo secretario, e i suoi censori. Forma per impresa un desco, in cui sono effigiati sette colli, ch’è la divisa della Città(11), ed una luna in istato di andar crescendo collo Epigrafe “Donec totum impleat orbem”, a fin di avvisare esser paghi; ma si avvacciassero giungerne al perfetto e compiuto acquisto. Fuori ‘l desco à le parole “Nobilissimus Ordo Consentinus(12), che si leggevano a piè della statua di Giulio Agrio in Roma, con le quali intese dimostrare, che la sua conservazione, ed innalzamento riconosceva dall’ordine de’ Patrizj; quantunque non solo di essi, ma di soggetti di altra condizione ancora venisse composta.

Non dee però tacersi, che più per le scritture, e per la soma di tant’illustri nostri cittadini, che per le norme, onde si governa, Ella vien conosciuta. Inperciocchè non ha per suo fine il rischiarare qualche oscura parte di Greca, o di Romana antichità; non di saldare qualche dibattuta controversia di sagra, e di profana istoria; non di specolare sovra intrigato problema di matematica facoltà, o di sperimental filosofia; ma solamente si aggira a coltivare in altrettanto piacevole, quanto infruttuoso studio della Poesia; altro no facendosi nelle adunanze, (13) che di recitare varj componimenti, fra’ quali se ne ascoltano spesso di quei, dettati (per così dire) a suono di dabbudà, o di calascione scordato, e non di lira. Quando ognun sa, che omai è ristuccato il mondo delle cose migliori in poesia, non che della clance di coloro, che accozzando undici sillabe con un certo numero affacente alle loro orecchie, si mettono a schiccherar fogli, e ad empierli di più versi di quel che già facesse qualunque insipido poetastro, e vanno tronfi, e pettoruti, credendo aver già meritato il titolo di poeti, né si avveggono, che da’ savj sono beffati, come quei, che togliendo, or da questo autore un concettuzzo, or da quell’altro un mezzo verso senza discernimento (dal che dipende la buona imitazione) fanno la figura della cornacchia di Esopo, e in vece di poetici componimenti forma centoni.

A questo ci ha forse chi opponga, e alla civil società più giovevoli, in quanto che mancarle i mezzi necessarj ha conosciuto, che le altre adunanze per la protezione de’ Principi, o per la cortesia di Uomini doviziosi ebbero la buona ventura di ottenere; e mi diranno, come mai delle astronomiche osservazioni(14), e delle fisiche esperienze, o sostener le già fatte, o novello scoverte mettere in chiaro potrebbe, se non è provveduto dagli strumenti, e de’ corpi naturali, che a sì fatto disegno son ricercati? Cose di sagra, e di profana istoria, o di Chiesastica disciplina le più belle parti del bujo dell’Antichità trarre a luce, senzo lo ajuto de’ buoni libri, che nella Città nostra non si rinvengono, (15) o sono appo taluni, che ignari affatto di ciò, che contengono, privi della intelligenza delle lingue, e adorni solamente di una superficiale cognizione, credono meritar dal volgo la fama di dotti, con farne una vana pompa, adornando gli armarj, senza concederne altrui per pochi momenti l’uso e la lezione?

Rispondiamo, che quantunque ciò sia ver arciverissimo, non dee per nostro avviso, impedire, che s’incominci a camminare per la buona strada, perché pian piano innoltrandosi, vengono gl’intoppi a superarsi; ed oltre a ciò gli strumenti necessarj con ispesa non eccesiva possono aversi, e i libri, richiesti a divenire addottrinati in qualunque facoltà, son i pochi, e buoni, su de’ quali lungo, diligente, e regolato studio si faccia, e non già i molti, e scioperati, perché si confonde, anziché si rischiari lo intelletto, e si grava, anziché si eserciti la memoria colle varie lezioni, che da un buon metodo non è governato. Onde avviene, che molti, che un quas’infinito numero di libri senza la dovuta riflessione hanno scartabellato e letto, quantunque presso gli sciocchi per saccenti si mostrino, pure da chi ha fior di senno per ciarlatani sono scoverti.

Ma sia com’esser si voglia ciò che abbiamo divisato, e sia pur per le addotte ragioni, contra il nostro sentimento, degno di scusa la nostr’Accademia; certo non n’è già degna, anzi e dignissimo di accusa e di biasimo per la soverchia condescendenza in ammettere nella sua schiera soggetti di niuno merito, e di non conosciuta dottrina, che non servono ad altro, che a scemarle il credito, mercè le fatighe di tanti suoi chiari scrittori acquistato. E cagiona del rincrescimento a chi be conosce, quid distent aera lupinis, che in una letteraria adunanza, ove sono arrolati tanti illustri uomini del regno, o forestieri, si veggano i nomi di alcuni, che se parlano, o scrivono, inciampano assai più spesso, che la mula di Galeazzo Florimonte appo il Bernia. E’ vero, che nelle più rinomate società anche tali sconcezze avvengono, o per la poca avvedutezza de’ suoi regolatori, o per gl’impegni di certi abiziosetti che senza merito credono coprire la loro ignoranza con lo specioso titolo di accademico: ma gli esempj di ciò nell’altre son pochi, ove nella nostra son quas’infiniti. Quindi se mai si torrà questo abuso, e s’ella rivolgerassi a studj più gravi, che non sono quei della poesia, o per fermo, che sarà un giorno risonare il suo nome a paro delle più rinomate, non mancandole ingegni sublimi, che siano amatori dell’onore, e della gloria. Non è però mio pensiero con quanto ho ragionato insunuare, che debba dismettersi lo amore per le buone lettere, e per la divina poesia, che son’ornamento pur troppo bello, e quasi necessario a chiunque voglia veramente divenir dotto; anzi sappiamo benissimo, che gli antichi filosofanti de’ detti di Esiodo, di Omero, di Euripide, di Sofocle tenner gran conto, e nelle Gentile Teologia, e nella fisica, ed Etica filosofia li venerarono per maestri; ma intendiamo dire, che della cognizione di queste facoltà dobbiamo solamente servirci per fregio, e in quanto con l’altre più necessarie hanno stretta corrispondenza e connessione. E siccome la Cosentin’Accademia nel mestier di poesia fe’ conoscere al mondo, che sapesse ognora conservare il buon gusto, poiché allora quando il Marini, ed altri correndo per nuova strada, l’aveano guasta, e corrotta, i suoi accedemici, e, per tralasciare ogni altro esempio, Scipion Pascali non fe’ trascinarsi dalla corrente: e Pirro Schettini, che fiorì quando invecchiato lo abuso avea gittate troppe forti radici, riportò vanto di ristoratore della Lirica poesia; così ella negli altri studj dimostrerà il suo sano discernimento. Saprà nelle fisiche specolazioni seguire il vero, ed indagarlo con le iterate sperienze, guardandosi, come disse il Morale. Ne pecudum ritu sequamur antecedentium gregem, pergentes non qua eundem est, sed qua itur. Saprà nella sagra, e profana istoria assegnar le vicende de’ Regni, e degl’Imperj, e la diversità de’ fatti alla serie de’ tempi, e alla disposizione de’ luoghi coll’ajuto della geografia e della cronologia. Saprà nella civile ed ecclesiastica disciplina rinvenire la purità dei dogmi, il culto religioso, la origine, e l’obbietto delle leggi colla lezione de’ Padri, e de’ Concilj, e collo studio della Romana vera giurisprudenza. E così anche nelle matematiche, tralasciando i sogni de’ genetliaci, e le parti meno giovevoli, coltiverà a geometria, e la pura astronomia: e in tal guisa oprando, vedrassi colle sue fatighe a te maggior glria, e al pubblico maggior giovamento arrecare.

NOTE

1- Meritò da Eugenio IV ecc. Questo pontefice, e Niccolò V innamorati della virtà di Bessarione aveano disegnato di destinarlo lor successore nel Pontificato, se non fossero stati contraddetti.

2- Molto profittevoli le adunanze ecc. Ragionevolmente Agostino Mascardi ne’ suoi discorsi sopra la Tavola di Cebere, paragona le Accademie alle Fiere, nelle quali i Mercatanti vendono le proprie, e comprano le altrui merci, con vicendevole guadagno.

3- Quindi Pomponio Leti ecc. Alcuni vogliono, e fra costoro Scipione Bargagli nella Orazione in lode delle Accademie, e ‘l Minturno nel lob. 4 della sua Poetica, che la prima Accademia Italiana fosse stata quella degl’Intronati di Siena istituita da Enea Silvio Piccolomini, poscia Pio II, e che questa avesse inventato le nuove lettere dell’Abbiccì italiano, delle quali si fece bello il Trissino. Ma Lodovico Catelvetro Scrittore accuratissimo nella partic. 7 della sua Poetica dice, che le prime Accademie Italiane fossero state le tre da noi accennate.

4- Caduti nello sdegno del sospettoso ecc. Vedi su tal particolare il Platina nella Vita del detto Pontefice, il Giovio negli Elogj, Marcantonio Sebellico, il Boissare nelle Immagini, ed altri.

5- Con una orazione ecc. Questa si legge tra le opere del Majonaggio, ed ha per titolo: “Pro se in Senatu Mediolanensi cum de mutatione nominis fuisset accusatus.

6- Con diverse stranissime ecc. Ci volesse un lungo Catalogo, potrà leggere la Italia Accademica di Giuseppe Malatesta Garuffi da Rimini, che fa vedere, non esserci stata città alcuna, che non avesse avuto la sua.

7- A’ forestieri d’oltremodo ecc. Il Menkerio nella Charlettaneria. Quia Italorum nescit Academias, quae raris, ac ridendis nominibus celebrari se gestiunt, quales sunt Argonautae, Seraphici, Elevati, Inflammati, ecc.

8- A Giano Parrasio ecc. Veggasi la Pistola del medesimo ad Nicolaum Marrellum, e l’altra ad Basilium Calcondylam.

9- Pensò Giovanni Paolo Aquino ecc. Potrà leggersi la lettera del Quattromani indirizzata ad esso Aquino, la Vita di Sertorio scritta dallo Egizio, e ‘l Giornale di Vinegia al tom. 22, art. 9, ove si loda il Quattromani per questo giudizio, di non dare alla nostra Accademia venuna denominazione capricciosa.

10- Essendo stato eletto Arcivescovo ecc. Vi fu sino al 1510, in tutto il qual tempo dimostrò grande affezione verso la nostra Accademia, ed in promuovere i buoni ingegni; e ne vien lodato da Ferdinando Ughelli.

11- Ed una luna in istato ecc. Questa stessa Impresa col motto medesimo fu già adoprata da Giovanni di Angiò, che nella congiura de’ Baroni contra Alfonso Aragonese venne alla conquista di questo Regno, e istituì l’Ordine Militare de’ Crescenti; come rapporta il dotto Compendiatore della Storia del Regno. Così anche fu adoprata da Errico Secondo per lo amore verso Diana di Valentinois sua favorita, come narra il Davila nella Storia delle guerre civili di Francia.

12- Che si leggevano a pie’ ecc. Mi astengo di qui rapportarla, perché è riferita da molti, che la trascrissero dal Parrasio, che prima di ogni altro la pubblicò; solo soggiungo, che il Quattromani nelle brievi annotazioni a Barrio della edizione dello Abate Aceti, afferma, che durava ancora a suoi tempi in Roma, e gli fu additata, sed liseris vetustare consuntis.

13- Che recitare varj ecc. Veggasi, come ragiona di ciò Muratori nel Buon Gusto & c. E non senza ragione altri già disse, che fossero stati degni di più lode i discorsi degli Accademici Perre, Cipolla, Popone, Cocomero, ecc. degli Ortolani di Piacenza, nel ragionare della qualità di quelle piante, onde avevano il nome, e nel pubblicarne varie scritture; che non tute quelle scempiaggini, che talora si ascoltano nelle Adunanze, dette di belle lettere.

14- Per la protezione de’ Principi ecc. Certamente, che la immortale Accademia del Cimento di Firenze, le Reali Societaò di Parigi, e d’Inghilterra, e quella di Berlino in Prussia, non avrebbero potuto far tante belle scoverte, se i loro magnanimi principi non somministravano i mezzi, così nel far lavorare gli strumenti, che con far venire dalle più rimote parti del mondo, tante fiere, uccelli, piante, pietre, gusci, frutta, e consimili. E lo Istituto delle Scienze di Bologna, poco avrebbe in questi ultimi tempi potuto profittare, se il Conte Marsigli non lo provvedeva di una copiosa suppellettile pertinente all’uso delle Scienze, come narra il Giornale Italiano al tom. 14, art. 6.

15- O sono appo taluni ecc. Qui mi sovviene quella graziosa Istorietta raccontata da uno erudito Annotatore della Charlataneria Menkeniana, che a quelle parole: ad illos venis, qui cum ipsi nihil habeant, quod predant ecc., narra che un illustre Personaggio avendo richiesto ad un uomo del carattere descritto l’uso di un libro per osservarci un passo accennatogli; il buono pseudodibibliofilo, segnato nel libro quel passo, suggellò tutto il rimanente, in maniera che non si fosse potuto leggere. Ma restituitogli il libro senza i suggelli, montò in tanta collera, che posta una spada, ed un pajo di pistole sul tavolino, e facendo entrare nella stanza il messo, che avea renduto il libro, con ciera brusca gli disse. Va, e di al tuo padrone, che queste non io apparecchiate (e mostrò le armi) per vendicar la ingiuria, ch’egi ha fatto a me, e al libro mio. Risum tentatis, amici.


Brevi cenni storici sull’Accademia Cosentina

L’Accademia Cosentina sorgeva nei principii del secolo decimo sesto. Riconosce la sua prima origine da Aulo Giano Parrasio, gentiluomo cosentino, uno de’ più chiari ed illustri letterati di quel tempo, meritatamente cognominato il Varrone del suo secolo, il di cui elogio si legge tra gli altri in Moreri, ed in Bayle. Il suo stabilimento poi, e ìil suo progresso lo deve al celebre filosofo cosentino Bernardino Telesio, il primo che scuoteva il giogo del Peripato, e che serviva la luminosa scorta a Verulames, Descartes, Galilei, ecc. ed al di lui prediletto discepolo, amico e concittadino Sertorio Quattromani, distinto poeta, e diligente critico, ed emendatore de’ massimi poeti. Le adunanze Parrassiane versavansi sulla classica letteratura: quelle dirette da Telesio occupavansi delle scienze esatte, e degli studi severi. Si voleva intanto, che l’Accademia assumesse uno di que’ tanti nomi allegorici, che adottavansi dalle Società Letterarie di quel tempo, ma il Quattromani fu di contrario parere, e volle, che non altro nome si chiamasse che di Accademia Cosentina, sembrandogli improprio ogni altro nome, e non dicevole affatto ad adunanza di uomini intenti a buoni studi. Ma però non si tenne fermo un tal proponimento. L’Accademia, per mostrarsi riconoscente al suo mecenate Monsignor Giovan Battista di Costanzo, prendeva dal di lui casato il distintivo dei Costanti. Poiché questo egregio Prelato fin da quando fu destinato Arcivescovo di Cosenza, che fu nell’anno 1591, dimostrossi affettuoso promotore dell’Accademia medesima, di cui ne fu fatto Principe: incarico, che sostenne lodevolmente per cinque lustri. Egli caldeggiava le lettere e le scienze, di cui ne promuoveva con ogni premura la coltura ed il progresso. Laonde l’Accademia di allora in poi, appellossi Accademia Cosentina de’ Costanti.

Più volte videsi declinare dall’antico suo splendore, e quasi vicina ad estinguersi; ma pure le fu data vita, e vigore. Massime poi nella metà del secolo decimosettimo contribuì a conservarle l’antica floridezza il Canonico cosentino Pirro Schettini riputato con ragione il restauratore della lirica poesia, e del buon gusto di quel secolo di generale corruzione. E, poco dopo, l’altro leggiadrissimo poeta cosentino Francesco Manfredi, delle di cui eleganti poesie messe a stampa si non fatte tre edizioni. Ciò non per tanto l’Accademia cessava d’esistere negli ultimi anni del secolo decimottavo con grave detrimento delle lettere, e del patrio decoro.

Ma pure giungeva quel tempo avventuroso, in cui l’Accademia rinascea con pari lustro e splendore che l’antico, sotto il titolo d’Istituto Cosentino. Ciò avvenne ne’ principii del terzo lustro del corrente secolo Decimono per le cure dell’Intendente della Provincia il Cav. Matteo Galdi, letterato distinto, e noto abbastanza per le sue dotte opere. Egli stesso ne dettava gli statuti, che furono superiormente approvati: fu dichiarato promotore della novella Società, la di cui solenne apertura fu fatta a’ 15 aprile 1811, nella quale egli medesimo recitava dotto, ed eloquente Discorso inaugurale, che fu accolto tra vivissimi applausi, e fu pubblicato pe’ tipi cosentini. L’Istituto si mantenne sempre con floridezza, e sarà celebre ne’ fasti della coltura cosentina la tornata, che ebbe luogo nel dì 20 agosto 1814, nella quale furono pronunziati ragionamenti di sommo interesse, e composizioni in greco, in latino, ed in italiano pregevolissime.

Rientrato ne’ suoi Reali Domini l’augusto Re Ferdinando Borbone, l’Istituto Cosentino si fece ad implorare, come aveano praticato molte altre Accademie, il patrocinio sovrano. Furono compilati nuovi statuti conformi all’esigenza de’ tempi dal socio ordinario Andrea Lombardi, che meritando la sovrana approvazione, fu con Real rescritto de’ 4 Dicembre 1817 comunicata all’Intendente della Provincia. Con un secondo rescritto de’ 19 gennaio 1818 fu comunicata l’approvazione del Re per 24 degni, e ragguardevoli Soci ordinari, ed in tal modo l’antica Accademia dei Costanti, rinnovata nel 1811 sotto il titolo di Istituto Cosentino, fu ripristinata a’ 22 febbraio 1818 sotto la denominazione primitiva di Accademia Cosentina.

L’Antica Accademia de’ Costanti avea il suo Principe, il suo Segretario, ed i suoi Censori. Formava per emblema un disco, in cui erano sette Colli, che è l’impresa di Cosenza, ed una luna in istato d’andar crescendo coll’epigrafe “Donec totum impleat orbem”, e fuori del disco leggevansi le parole nobilissimus ordo Cosentinus. Uscirono in ogni tempo dal suo grembo illustri filosofi, medici, giureconsulti, poeti ecc. come ne fanno prova le opere di loro messe a stampa, ond’è che brillò sempre di una luce vivissima, e il grido del suo sapere si sparse per tutta l’Europa. I nomi degli illustri letterati, ed Accademici Cosentini sono registrati nelle memorie del tempo, ed in quelle principalmente del Marchese Spiriti stampate in Napoli nel 1750.

L'attuale Accademia Cosentina è composta di soci ordinari, onorari, e corrispondenti. Il numero de' soci ordinari è fissato a 24, quello degli onorari a 40, indefinito è quello de' corripondenti, e candidati. E' divisa in due sezioni, una si occupa di Archeologia, e Letteratura, e l'altra di materie scientifiche. Ha i suoi statuti come si è detto di sopra, un Presidente, un Vice Presidente, un Segretario, ed un Bibliotecario. La durata dell'ufficio de' primi è annuale, la di cui scelta viene fatta esclusivamente da' soci ordinari: quella degli ultimi è perpetua. Vi sono ascritti i più distinti letterati del regno, non che stranieri. Come poi sono vari anni che l'Accademia ha ripreso maggior energia pel valore, ed operosità de' suoi soci, così tiene costantemente le sue tornate periodiche in ogni mese: oltre che ci sono in ogni anno tornate generali fissate pe' giorni 12 gennaio e 15 settembre. Numerose sono sempre le adunanze, vi si leggono componimenti di ogni sorta tanto da soci residenti in città, quanto da forestieri, facendosi però la lettura di quelli di questi ultimi dal Segretario perpetuo, o da altro socio incaricato dall'Autore. I migliori componimenti, dietro accurato e diligente esame fattone dalla Commissione Censoria, veggono la luce negli Atti dell'Accademia co' torchi cosentini, de' quali finora ne sono stati pubblicati due volumi, ed incominciato il terzo.

A compimento di questi cenni si arroge, che in Cosenza esistono altre tre Accademie: e che forse non poco contribuirono a far estinguere l'antica Accademia de' Costanti. Una di esse sorgeva, come sembra, per opera d'alcuni dissidenti soci dell'Accademia de' Costanti alla metà del secolo XVII sotto il nome di Negligenti. Ma, tornata l'armonia nell'Accademia, quella de' Negligenti finì di vivere. L'altra si fu un'Accademia ecclesiastica diretta a combattere gli errorei di Bingamo, e di Basnagio. Fu stabilità circa il 1754 a premura del'Arcivescovo Michele M. Capece Galeota, e riunivasi nella Chiesa Metropolitana sotto la direzione del Canonico Tommaso Telesio.

Questa ebbe pure breve durata. La terza finalmente, a differenza delle due precedenti, visse più lungamente, e fin dal suo nascere acquistò riputazione, e celebrità. I più colti ingegni di quell'età, nazionali e stranieri, fecero a gara per esservi ascritti. Si contavano fra i suoi soci il fiorentino Lami, il Franceschini da Lucca, il P. Mansi, Anton Francesco Gori, il P. Bianchini, l'abbate Zaccheria, il P. Mainardi. E fra i nazionali non è da obbliarsi il P. Francesco Antonio Piro istoriografo generale de' Minimi, celebre cosentino, impugnatore invitto di Bayle, e che meritò l'onore della statua nella grande isola filosofica. Questa Accademia chiamavasi de' Pescatori Cratilidi, e venne apertea a 15 febbraio 1756, e munita di regio assenso dl 1758. Il fondatore di essa fu l'Abbate Gaetano Greco cosentino, famoso letterato di quel tempo, che nel suo dramma la Pompea riscosse gli applausi dello amico Metastasio, ed amico pure era di tutti gli enunciati dotti italiani. Egli fu rapito alle lettere, ed al patrio decoro nel 1764 nell'età giovanile di 27 anni. Dopo la morte del suo fondatore benchè l'Accademia de' Pescatori Cratilidi si fosse mantenuta con floridezza, pure s'estinse nel 1794 per le malaugurate, e troppo note cagioni di quel tempo.

L'Accademia de' Pescatori Cratilidi avea anche il suo stemma rappresentante i setti Colli fiancheggiati da due fiumi Crati, e Busento; nell'estremità del primo un mirto infocato dal sole coll'epigrafe “Nec crescet ardore”, ed in cima un amo all'esca coll'altro motto “Grandia ab exiquo”.

(Memorie storiche intorno Le Accademie Scientifiche e Letterarie della città di Bologna scritte da Michele Medici, Bologna, Tipi Sassi nelle Spaderie, 1852 in nota 2 pag. 112)


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