OP

Mezzoeuro

Francesco Pignatelli Strongoli, aiutante di campo di Murat

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XI num. 29 del 21/07/2012


Rende, 18/07/2012


Un difficile equilibrio tra reazione e rivoluzione

Militare di carriere al servizio dell'Impero austro ungarico, corre in aiuto dei fratelli imprigionati a Napoli come cospiratori contro Ferdinando IV. Li fa evadere corrompendo una guardia, ma è costretto a lasciare il Regno. Si arruola nell'armata francese, diventando un sincero liberale. Chiamato dallo stesso Bonapartead accompagnare suo fratello Giuseppe a Napoli per il suo insediamento ...

La biografia di Francesco Pignatelli Strongoli è minuziosamente narrata in un libro del 1859 scritto da Mario Carletti.

Appartenente a una delle più nobili e antiche famiglie del Regno di Napoli, egli era il nipote dell'omonimo Francesco nominato Vicario del Regno da Ferdinando IV in fuga da Napoli e rifugiatosi in Sicilia alla vigilia di Natale del 1798, di cui abbiamo parlato lo scorso numero.

Scrive Carletti: “Nacque a Napoli a' due febbrajo dell'anno 1774 da Salvatore Pignatelli (fratello del citato Vicario), il quale avea militato con bella fama sotto le bandiere di Carlo III Borbone fino al grado di generale, e da Giulia Mastrilli. Taccio la di lui infanzia per sottrarmi alla volgare consuetudine di supplire a quello che ignorasi con ciò che più alletta d'infingere.

CarbonariDirò bensì che a cura del genitore venne di buon'ora ammesso nel Collegio de' Nobili, lodatissimo instituto di Educazione, per formarsi alle discipline letterarie e scientifiche, delle quali compì il tirocinio con segnalato profitto, prima che egli toccasse il decimo settimo anno di età. In tal punto abbandonò gli studi tranquilli per le fazioni di guerra, cui la dilezione del padre ed il genio proprio lo confortavano. Elesse ascriversi nell'Armata austriaca; e poté nella qualità di ufficiale della cavalleria del Reggimento La Tour, in grazia dell'avo che in quella primeggiava di feld-maresciallo, e di suo zio, il marchese del Gallo, il quale rappresentava il Governo di Napoli presso la corte imperiale. Declinava allora l'anno 1792; e la Monarchia austriaca più d'una volta aveva dovuto, con varia fortuna, cimentare i suoi eserciti ora a ricondurre in obbedienza i popoli sollevati, ora a misurarsi contro esterni nemici”.

Con l'armata austriaca fu presente sui campi di battaglia in tutta Europa, confrontandosi con le armate rivoluzionarie francesi.

“Mentre in tal modo il terrore ricercava le fibre de' governi e de' popoli, sicché entrambi alle estreme prove accingevansi, la vita militare di Francesco Pignatelli, in cui l'ardore delle gesta guerresche eguagliava l'avversione alle orrende carnificine civili in cui la Francia era spettacolo, traeva principio”, scrive il Carletti.

”Malagevole assai, per non dire impossibile, riuscirebbe a noi il fare distinta menzione di tutte le militari fazioni alle quali nel corso di una guerra sì lungamente combattuta partecipò; né prove sicure ricorrono in nostro soccorso per persuaderci essersi egli ritrovato alle prime fazioni degli austriaci segnalate da prosperi successi a Maestricht (3 marzo 1793), a Nerwinde ed a Bruxelles; ma il seguito di quella campagna e le posteriori guerre di Italia altre occasioni porsero ad esso di distinguersi intorno alle quali, perocchè confortati dagli schiarimenti opportuni, più diligente storia ordiremo”.

“Uno de' combattimenti, frattanto, nel quale l'audacia giovanile alla saldezza di provetto soldato congiuntamente addimostrò fu l'assedio della cittadella di Valenciennes e l'altra di Condé espugnata dopo quarant'anni con un giorno di bombardamento; nel primo de' quali attacchi Pignatelli, sebben militasse col semplice grado d'Uffiziale, vi acquistò la reputazione d'invitto, e ferita non lieve riportò alla faccia. Il seguito di quella guerra altre opportunità di segnalarsi, altri pericoli gli apparecchiava. Nella battaglia tra la Sambra e la Mosa ritroviamo il prode Pignatelli giù avanzato al grado di Capitano: il quale sempre nelle mischie animoso, riportò una seconda ferita al braccio destro non ultima in quella sì disastrosa campagna”.

“Al termine del 1793 gli alleati già in varii punti e tanto alla spicciolata che in massa battuti, volgevano in ritirata lungo la linea di Wisembourg. La Francia aveva veduto ristorarsi grandemente le sue fortune, le quali se a' principii di quello anno avevano piegato avverse per i successi degli alleati a Valenciennes ed a Condé non meno che per gli intestini turbamenti, mutarono al cadere di quello in propizie per aver contenuto i nemici esterni e soggiogati gl'interni.

“La nuova campagna del 1794 intrapresa sotto auspici anco più lieti, doveva portare al colmo la potenza militare di quella Nazione”. Fu una guerra epica che la Francia combatté contro i poderosi eserciti di tutta Europa, uscendo alla fine vittoriosa.

“Questo terzo stadio della campagna degli alleati nel quale eglino portavano non più di 140,000 uomini contro 200,0000 si aprì, funestamente per essi, con la espugnazioni di Turcoing compiuta dai francesi con la memorabile battaglia data a' 16 di maggio, la quale fu arra di nuovi e non meno segnalati trionfi. A '16 giugno si apre combattimento; sostenuto da' francesi con 66.000 uomini sotto gli ordini de' generali Iourdan, Hespignies e Championnet. …. Fu in quest'ultima battaglia di Fleurus che Pignatelli colse gli ultimi e sfortunati onori nelle file degli alleati, pagando anche questa volta il suo tributo al valore, per ferita riportata ad una gamba: la quale però, abbenchè grave, non gli avrebbe impedito di seguitarne le sorti del vinto esercito, ove maggiori e più dolenti cagioni non lo avessero reclamata in patria.

Improvvisamente, infatti, la vita di Francesco Pignatelli ebbe una svolta clamorosa che lo costrinse a lasciare l'esercito austriaco.

Cosa era successo a Napoli? Il 21 gennaio 1793 il Re di Francia Luigi XVI venne ghigliottinato a Parigi, in Piazza della Rivoluzione, e nell’ottobre la stessa sorte toccò alla moglie Maria Antonietta, sorella della regina di Napoli, Maria Carolina. Questo triste evento portò a una drastica svolta nella politica napoletana. La famiglia reale, e particolarmente la regina, cominciò a intravedere complotti dappertutto e sospettare connivenze dei riformatori e dei giovani illuminati con i giacobini francesi. Tutti i giovani venivano tenuti sotto osservazione e chiunque avesse comportamenti non conformistici, o professava dottrine e leggeva libri considerati rivoluzionari veniva sospettato e trascinato in tribunale per sedizione.

In questa opera si dimostrò particolarmente solerte il ministro John Acton, legato da una stretta amicizia con Maria Carolina.

Ecco cosa scrive Pietro Colletta della congiura che egli riteneva fosse stato ordita per rovesciare la monarchia borbonica. Le riunioni di intellettuali, massoni o semplici giovani in cerca di avventure galanti furono considerate pericolose. Fu istituita una Giunta di Stato per giudicare i sospettati. Lo stesso Acton dichiarava di “serbar prove contro 20.000; e sospetti per 50.0000”. Molti furono i condannati a pene severissime. “L'accusa era eguale per tutti: aver, cioè, cospirato contro la monarchia; sollecitato simpatie in favore della nuova dominazione francese; accolto in amico aspetto, dato incoraggiamenti, promesse e fatto a fidanza con lo ambasciatore Makau, con l'ammiraglio La Touche e gli ufficiali della flotta testé arrivata al porto di Napoli onde ottenere soddisfacimento delle pratiche ostili alla Repubblica avanzate da quel governo a quelli di Sardegna e delle Venezie”.

MuratPer questa opera di repressione ci si servì di spie e delatori, corrotti con il denaro per sostenere le accuse e consentire la condanna dei sospettati.

“Tra gli arrestati vi era Annibale Giordano, professore di matematica, egregio per ingegno,

malvagio per natura, che per ottenere la libertà non esitò ad accusare tutti i suoi amici … Altre colpe di lui stanno registrate in quei fogli; e ve ne ha tali per fino malefiche a' suoi principi. Molti nobili (egli stesso n'è cagione col consiglio e con l'esempio) sono tra' congiurati: i Colonna, i Caracciolo, i Pignatelli e Serra e Caraffa, ed altri nomi tali per natali, titoli e ricchezze; i giovani bensì, non i capi delle famiglie, ma di giovani si riempiono le congiure; e poscia i maggiori, per naturale affetto di sangue difendendo i figliuoli, aiutano l'impresa”. Le dichiarazioni di una sola persona erano sufficienti per la condanna di decine di accusati.

Non appena John Acton ebbe riferito al re del complotto, questi “sciolse la secreta conferenza, prescrivendo che al domani l'altro i ministri dello Stato, il general Pignatelli capo dell'armi, il cardinale Fabrizio Ruffo, il duca di Gravina e il principe di Migliano si adunassero a suo consiglio nella reggia di Caserta. — Dimenticate i privati affetti, o di classe, o di parentado: un solo sentimento vi guidi, la sicurezza della mia corona, disse al ministro Acton. E il suo monito era rivolto in particolare al generale Francesco Pignatelli, poiché tra i sospettati vi erano anche i suoi giovani nipoti, che furono condannati ai ferri.

“Due intieri anni i giovani Pignatelli (Ferdinando e Mario, fratelli entrambi a Francesco, e ad esso superiori in età) languirono fra le asperità del carcere, mestamente pensosi della propria sorte”.

Non appena il giovane Francesco ebbe notizia dell'arresto dei fratelli abbandonò l'esercito austriaco e si recò a Napoli. “Si ridusse privato cittadino, accorse in patria onde in quel grave sinistro alcuna cosa tentare che potesse in loro beneficio riescire”.

“E vollero i cieli che così fosse: soccorso nel pietoso artificio dalla influenza del Capitano generale Pignatelli, giunse Francesco a guadagnare coll'oro alcuno tra' custodi del carcere ov'erano ritenuti i fratelli; pel quale espediente eglino ebbero modo di evadere, e di riparare incolumi in quella parte del territorio italiano che per la presenza delle armi francesi era dalle politiche persecuzioni protetta”.

Con l'aiuto segreto dello zio riuscì a salvare i fratelli, ma ormai la sua figura era compromessa con la corte napoletana e fu, quindi, costretto a lasciare Napoli arruolandosi nell'esercito francese, dove fu accolto calorosamente poiché era ben nota la sua bravura nelle armi, il suo coraggio e le lunghe guerre sostenute. “Al suo nome illustrato dalle forti azioni degli avi, non meno che dalle proprie, dovette lo essere stato accolto da Napoleone col grado di capitano nel corpo di armata agli ordini del Generale Massena”. Mostrò sempre le sue qualità guerriere e il suo valore anche nelle sconfitte.

Gli furono affidati tre battaglioni di fanteria nell'armata di Championnet e con essi costituì l'avanguardia dell'esercito francese a Civita Castellana nel 1798.

“Egli ebbe a sostenere l'urto primo e più forte nel quale sbaragliò e vinse i borbonici, 8.000, accozzaglia avventiccia di Dalmati, Albanesi, ed Epiroti militanti sotto il principe di Sassonia. In cotesto combattimento per raro valore segnalato, oltre l'arte addimostrata dal Pignatelli nel dirigere lo attacco, nel quale il grave danno de' nemici costò a' vincitore lievissime perdite, egli ebbe altresì il destro di dar prova del suo personale coraggio in una lotta che si impegnò, corpo a corpo, tra esso ed il porta-bandiera capitano Hauzowitz che riuscì ad uccidere e così ad involargli la propria bandiera, senza riportare altro danno oltre quello della perdita del proprio cavallo, ed una non grave ferita alla faccia”.

“La sola colonna che sotto il generale Dufresse venne destinata a procedere verso Capo-di-Monte, e della quale faceva parte Pignatelli, corse più gravi pericoli della altre nel guadagnare, siccome con successo tentò, le colline del Vomero, difese da' resti dell'Esercito Borbonico e da' così detti Santa-Fedi, per indi farsi strada al forte di Sant'Elmo che senza opporre resistenza, diedesi alla mercé dei vincitori”.

Nel forte egli ritrovò i suoi fratelli ed insieme issarono il tricolore della Repubblica (blu, giallo e rosso). Alla caduta della Repubblica, Mario e Ferdinando furono catturati e decapitati.

“Francesco ed un suo minore fratello, Vincenzo, dovettero alle ingiunzioni del general Macdonald, che destinò i corpi d'armata di cui eglino facevano parte alle nuove guerre sovrastanti all'Italia, la salvezza delle loro vite”.

In Francia venne “prescelto ad organizzare col grado di General di Brigata una legione di patrioti della sua patria infelice, 5000, cui i casi tristissimi sui duri passi dello esilio avevano spinto”.

“In questa onorevole alla pari che grave bisogna egli spiegò perizia militare non ordinaria, amore alla austera disciplina, e attività segnalata”.

“Ma la pace stipulata in Firenze l'anno 1801 tra il primo console ed il Re di Napoli venne ad interrompere la carriera militare di Pignatelli, il quale da' capitoli di quella fatto certo della personal sicurezza, e per di più del recupero delle sostanze sue e di quelle ereditate da' fratelli, prosciolte siccome vennero dallo ottenne sequestro, non seppe resistere alla necessità ed insieme alla attrattiva di ricondursi in patria, ove, infatti, riparava l'anno 1903.

Nelle cure e nei forzati ozi della terra avita si tratteneva Pignatelli fino all'epoca del 1806, nella quale più romorosi avvenimenti a distorcerlo sopraggiunsero.

Ed in vero, durante il corso de' tre anni che in patria le private cure costringevanlo egli versò in continua tema della sua personal sicurtà, esempi diuturni ammonendolo come le antiche offese non solo ma, eziandio, le opere per loro stesse oneste e generose i governi assoluti con pertinace malevoglienza avversassero e punissero.

Vinta da Napoleone la memorabile battaglia di Austerliz ( 2 dicembre 1805), fermata la pace di Presburgo, rimaneva da vendicare i torti che di fronte alla Francia il napoletana governo per la non attenuta neutralità alla quale erasi impegnato, avendo ricettato ne' suoi porti vascelli russi e inglesi.

Giuseppe BonaparteIn questo stato di cose, serie di non interrotte afflizioni viveva Pignatelli allora che lo riscosse lo annunzio dei destini che stavano per novellamente mutare le condizioni di Napoli.

Ne ebbene soltanto lo annuncio, ma altresì, in argomento di onore, la cooperazione più distinta; conciosiaché egli per corriere straordinario venisse avvertito essere desiderio di Napoleone che egli il novello Re raggiungesse a Torino e di colà festosamente alla sede regale lo accompagnasse, ogne vie meglio apparisse come, la dinastia succedente alla antica dal pubblico voto di que' popoli piuttosto che dallo arbitrio insolente della fortuna sorgesse.

Con lieto animo Pignatelli adempì alla onorevole missione, e poiché in patria ebbe fatto ritorno col nuovo re (12 febbraio), riassunte le militari divise, venne preposto e diede opera a ricomporre il napoletano esercito.

Intorno al quale assunto, non nuovo, siccome vedemmo, per esso, circa un anno instancabilmente s'adoperò, allora che nel 1808 (6 settembre) succeduto a Giuseppe nel trono di Napoli Gioacchino Murat, cui Pignatelli famigliarissimo era per quella dimestichezza che lo avere militato sotto le stesse bandiere e con pari valore concede, venne da quest'ultimo elevato a suo Ajutante di Campo ed inoltre inviato alla testa di una forte legione per sottomettere le reazioni e frenare le devastazioni orribili che i prezzolati di Ferdinando IV, come nella prima così nella nuova dominazione francese, infestanti le calabresi terre senza posa v'apportavano.

“Reduce da quella spedizione, di esito fortunato ma non durevole, Murat confidò ai generali Lamarque e Pignatelli più grave bisogna e fu, la espugnazione dell'isola di Capri”, che era stata occupata dagli inglesi.

Fu una spedizione che mise ancora una volte in luce, le eccezionali qualità guerresche e di strategia militare possedute da Francesco Pignatelli. L'azione ebbe pieno successo ed ebbe una larga eco in tutta Europa.

Per le doti dimostrate in questa azione fu mandato a combattere in Spagna insorta contro il governo di Giuseppe Bonaparte. “Pignatelli, in qual momento più soldato che cittadino, vi si condusse alla testa di una forte divisione napoletana. Gli assalti di Terragona e Saragozza, memorabili fra le altre cose per lo eroismo col quale il sesso imbelle gareggiò il maschile valore, fama di esperto e di invitto cattivarongli”.

Egli partecipò in seguito a tutte le guerre combattute da Murat, dalla spedizione polacca alla sfortunata campagna di Russia.

“Compiuto per la pace di Casalanza il breve e sfortunato regno di Gioacchino, Pignatelli ritraendosi nel silenzio della vita privata recava seco il disinganno che la conquista, reliquie di barbarie, potesse essere d'alcun bene feconda a' popoli che la subiscono, ed il saldo proposito di non partecipare alle nuove enormezze che dalla Restaurazione presagivansi disastrosissime. E tanto ottenne.

Cinque anni visse appartato dalla cure pubbliche civili e militari; i quali riempì delle più semplici e più tranquille della famiglia. N'eran parte la moglie, donna Maria Giuseppa De Zelada figlia del generale spagnuolo di questo nome, ed otto figli, che due maschi, e sei femmine, alla educazione dei quali vigilantissimo attese”.

“Mentre egli traeva i giorni nella serenità di queste più riposata abitudini, soppraggiunsero gli inattesi avvenimenti del 1820”.

In quell'anno si verificò un generale sollevamento in tutto il regno, e il liberali chiesero la costituzione. Il generale Pignatelli fu chiamato a calmare i rivoltosi, poiché per i suoi trascorsi murattiani godeva di grande prestigio tra i liberali, e lui sostenne l'idea costituzionale. Quando l'anno successivo Ferdinando I, su istigazione dell'Austria, volle annullare la costituzione i moti ricominciarono con più veemenza di prima. Il tentativo di resistenza di fronte alle armate austriache accorse in aiuto della monarchia furono vane.

“La libertà soggiacque di nuovo, e ben più lungamente; e Pignatelli che incontrammo sempre a' primi ranghi dell'esercito quante volte il sostenerla fu pericoloso ma non disperato partito, ora che tutto cospirava a soffocarla, rientrava nel silenzio della vita privata, per serbare intemerata la fama, ed integre le posse a giorni migliori”.

Ritornò ancora una volta sulla scena nel 1847 per convincere il re a venire a patti con i liberali e concedere finalmente la costituzione, evitando un altro bagno di sangue.

“I prieghi del vecchio soldato, in cui niun'altra ambizione oltre quella di vedere accresciuto il decoro e la prosperità della patria allignava, eran racchiusi in una lettera privata che egli indirizzava al Re nel dicembre di quell'anno”.

Nel gennaio del 1848, il Re concedeva per la seconda volta la Costituzione e Francesco Pignatelli fu nominato comandante della Guardia Nazionale, il corpo di polizia costituito a difesa del nuovo ordine, ma gli fu negato qualsiasi mezzo e collaborazione: “vietati, perfino, codici disciplinari e quant'altro più strettamente atteneva ad imbrigliare le ambizioni e gli umori popolari men tolleranti di freno”.

“In tanta contrarietà vennegli meno il potere: sicché presago de' mali cui avrebbe condotto tanta lassezza ed incuria intorno al più grave negozio che si affacci alla considerazione di un governo in via di riforme, estimò prudente consiglio dimettersi dal grado, e nella sfera delle sole incombenze notifiche dello Stato ristringersi”.

La carriera mortale di Francesco Pignatelli di poco sopravanzò il termine della sua vita pubblica, chiusasi col 26 di Aprile del 1853”.

(Le citazioni sono tratte da Mario Carletti, Biografia del Tenente-Generale Francesco Pignatelli, Tipografia di G. Mariani, Firenze 1859)


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