OP

Mezzoeuro

Mattia Preti, il pittore hidalgo

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XI num. 30 del 28/07/2012


Rende, 25/07/2012


Grande artista del Seicento

Nativo di Taverna, trascorse tutta la sua vita in giro per l'Italia e l'Europa sempre alla ricerca della perfezione del tratto artistico. Conobbe molti rinomati artisti, il Veronese, il Guercino, Annibale Caracci, Rubens. Da tutti apprese qualche segreto dell'arte. Era anche un gran spadaccino e la scherma lo portò in prigione per i duelli che ingaggiò con i suoi nemici e detrattori.

Per raccontare la vita di Mattia Preti, il più rinomato e stimato pittore calabrese, ci siamo avvalsi del libro di Bernardo De' Dominici - Notizie della vita del cavaliere Fra Mattia Preti pubblicato a Malta nel 1864. L'isola ha avuto un posto importante nella vita del grande pittore, dove egli trascorse molti anni della sua vita e vi morì nel 1699, lasciando una grande quantità di opere, quadri e dipinti murali che erano il vanto di quella popolazione.

Bernardo De' Dominicis era il presidente di un comitato costituito appositamente per onorare la memoria di Mattia Preti e conservarne le opere che rischiavano di deteriorarsi.

Egli visse nell'epoca spagnola e rappresenta un tipico hidalgo, un cavaliere spavaldo e temerario sempre pronto a difendere il proprio onore e quello della sua famiglia e della sua patria. Secondo le cronache della sua epoca, Mattia era di bellissimo e nobile aspetto ed alto della persona, buon parlatore, e bastantamente ammaestrato nei buoni studj. Il suo aspetto e il carattere irruento lo portarono a frequentare i salotti dell'alta aristocrazia romana e lo introdusse rapidamente nella cerchia dei grandi artisti che vi erano numerosi nella corte papale.

Mattia PretiFu sempre mosso da una incontenibile voglia di conoscenza e vagò per tutta Europa alla continua ricerca dei migliori maestri per apprendere i segreti della loro arte.

La seconda fonte è il voluminoso “Biografia degli artisti” pubblicato a Venezia nel 1896, che dedica un ampio spazio al nostro pittore, sotto la voce Il Calabrese, come era universalmente conosciuto.

Narra il De' Dominicis. “Nacque il cavaliere F. Mattia Preti della antichissima famiglia detta de' Presbiteri, che fin dal tempo dell'imperatore Costantino figliuol di Leone fioriva nel paese de' Bruzi, e propriamente nella città di Treschina, detta oggidì Taverna la vecchia; donde egli è verosimile che poi si diramasse in Lombardia, ove divenne illustre”.

“Venne adunque alla luce da Cesare e da Innocenza Schipano a' 20 di febbraio dell'anno 1613. Scorsa età puerile, fu da Cesare raccomandato alla cura di D. Marcello Anania, amorevole di sua casa, acciocchè lo instruisse nella Gramatica, e nelle buone lettere, nel corso dei quali studj spinto da un genio naturale, solea copiare alcune stampe dagli elementi del disegno lasciate in casa da Gregorio suo fratello, noto pittore che aveva bottega a Roma.

Poiché fu pervenuto all'età di 17 anni, sentendo che Gregorio suo fratello avea grido di buon pittore a Roma, ed invitato ad andare colà dal medesimo, senza curar punto delle preghiere della madre, quasi fuggiasco partì dalla patria, accompagnandosi con alcuni mercatanti di seta, e dopo brieve dimora in Napoli, a Roma si condusse. Giunto in quell'alma città, fu amorevolmente accolto da Gregorio, e quindi incaminato ne' severi studj di filosofia e di matematica, e specialmente di prospettiva e di architettura, e confortato alla lettura delle sacre e profane istorie, in ciascuna delle quali facoltà egli eccellente divenne.

Venivano spesso interrotti questi studj dal suo genio inclinatissimo al giuoco della spada; sicché lasciando il toccalapis, cercava col fioretto segnalarsi nelle cavalleresche Accademie, nelle quali somma lode riportava; quindi siccome era ugualmente invaghito della scherma e della pittura,così cercava ugualmente di conoscere tanto i gran Pittori, quanto i gran Maestri di quella, affinchè in ciascheduna delle due facoltà potesse apprendere la desiderata perfezione.

Avendo il Guercino mandato a Roma il suo quadro di S. Petronilla, il Preti si affrettò di recarsi a Cento, dove era il Guercino, per ottenere lezioni da tale valente artista, e ne ottenne l'amore. Non volle dipingere che versatissimo nel disegno, per ciò solo di ventisei anni cominciò a colorire la prima volta; indi viaggiò a lungo per istudiare tutte le scuole, e dopo un'assenza di sei anni di Roma, i suoi primi lavori furono un Cristo dinanzi a Pilato, ed una Penelope che scaccia i Proci, bellissimi. I suoi protettori gli ottennero dal Papa il cavalierato di Malta.

Laonde maggiormente animato da quei valentuomini continuò con ardore, e costanza lo studio per acquistar fama ancor'egli ed essere annoverato fra più valenti pittori: ed avendo più volte da essi udito, che Paolo Veronese fosse il vero esempio de' gran componimenti da cui tutti i migliori aveano appreso, egli tolse commiato dal maestro, e partì per Vinegia, fermandosi prima alcuni giorni a Parma per ivi ammirare e far qualche studio su le opere stupende del Correggio, da cui apprese la vera intelligenza del sotto in su, come ben si conobbe dalle opere che poi egli fece di cupole, e di volte di varie chiese, delle quali opere si farà parola a suo luogo.

Ivi trovandosi una volta presente ad un'accademia di scherma, diede tal saggio della sua perizia, e destrezza, che un signore francese ivi presente preselo ad amare, e seco lo condusse in Francia, dove egli andò volentieri per veder operare quei famosi accademici, ed osservare le opere di Simone Vovet, di Niccolò, e Pietro Mignard, de' quali diceva gran cose la fama; e vi giunse in tempo, che il Mignard avea scoverto le sue pitture nel palagio reale; ma perché Mattia avea l'occhio pieno delle opere eccellentissime de' mentovati maestri, non gli fecero né queste, né altrove vedute molte sensazioni.La sala però dipinta dal Rubens alla Reina Maria de' Medici lo dilettò in maniera, che volle portarsi in Fiandra per conoscere un sì grand'uomo, del quale affermava non aver incontrato, né più bizzarro, né più copioso dopo il Veronese.

Giunto Mattia in Anversa portò il caso, che essendo egli in una Chiesa ad ascoltar Messa, e questa celebrandosi in un altare, ove era esposto un quadro del Rubens, egli quasi incantato della gran bellezza di esso, poca attenzione fece al divin Sacrificio: perlochè dopo che questo fu terminato, gli si accostò un gentiluomo di aspetto grave, e pien di decoro, il quale per lo gran corteggio che avea d'intorno parevagli un gran signore, e cortesemente dimandogli, come gli piacesse quel quadro. A tal domanda risposto avendo Mattia, che per conoscere quel pittore era venuto in Fiandra, tosto quel signore pronto si offerì di condurvelo egli stesso, e con nobil cortesia menollo seco in una magnifica casa corredata alla nobile, ed ornata di belle statue, di bassi rilievi, di medaglie, ed altre riguardevoli curiosità, e fra le altre cose pendevano dalle pareti varj quadri del Rubens. Di questi il gentiluomo molti ne biasimava, tacciandoli di qualche difetto, e dimandando anche Mattia il suo parere; ma egli modestamente opponendosi con ragioni tratte dall'intimo dell'arte, sforzavasi di fargli conoscere esser l'opera non solo senza il preteso difetto, ma perfettissima. Il perché sentì dirsi dal gentiluomo. "Voi certamente siete professore, perché così ben parlate della pittura, e per le ragioni che mi avete apportate sarete valentuomo, niente meno del Rubens, o almeno lo sarete in appresso".

Alle quali cortesi espressioni umiliandosi Mattia, confessava esser venuto per imparare da quel grand'uomo, e quegli: "Dopochè tanto desiderio avete di conoscere il Rubens, ed avete avuto il disagio di venir fino in Fiandra per tale oggetto sappiate che io sono Pietro Paolo Rubens".

Restò sopraffatto Mattia di così inaspettata conoscenza; imperciocchè non avrebbe giammai immaginato che colui, il quale all'abito, al corteggio, ed al trattamento sembrava un principe, anzi che un pittore, fusse il medesimo Rubens; ma in uno istante soccorso dalla vivacità del suo spirito raddoppiò le laudi, e gli soggiunse, che vicino alla bellissima maniera de' suoi colori, perdeva il naturale medesimo, giacché nelle sue carnagioni, parea che fusse stemperato un nobile, e vivacissimo sangue: forse ricordevole Mattia di quel che in proposito di Rubens avea detto Guido Reni in Roma, quando ammirato della vivezza dei di lui colori, voltato a' suoi scolari disse: E che? macina costui sangue ne' suoi colori?

In fine dopo questo fortunato incontro, godè Mattia per qualche tempo della conversazione, e benivoglienza di quel grand'uomo, dal quale oltre a' saggi documenti, gli fu pronosticata l'ottima riuscita che avrebbe fatta, dapoichè gli ebbe dato a vedere alcuna cosa del suo; e regalato anche dal Rubens d'una Erodiane, che tenea in un bacino la testa di S. Giovanni Battista (la quale egli poi diede al Pontefice Urbano VIII) partì alla volta della Germania: ma perché non gli venne veduto pittore di rilievo, alla bella Italia, e dopo sei o sette anni di assenza, a Roma fece ritorno. Giurò solennemente di evitare risse e duelli dedicandosi esclusivamente alla pittura.

Qui si conquistò le grazie del Cardinale Rospigliosi e di D. Olimpia Aldobrandini, per intercessione della quale il Papa Urbano VIII lo nominò cavaliere dell'Ordine Gerosolimitano, attestando con un breve la sua origine nobiliare, con una solenne cerimonia nella Chiesa di S. Anna di Borgo il 31 ottobre del 1642.

Ma quando l'uomo meno il crede sopravvengono strani accidenti a turbare la sua quiete. Capitò in quel tempo a Roma un famoso schermitore spregiator de' Romani, ed altiero, per esser stato maestro di scherma dell'Imperatore, e come altri dicono del Re de' Romani, ch'era allora Leopoldo: egli per far conoscere il suo valore, o più tosto l'audacia, ardì porre nelle più frequentate piazze di Roma certi cartelli, invitando a battersi seco chiunque volesse con lui provarsi.

Questa disfida turbò l'animo di alcuni nobili, che praticavano in casa della Principessa di Rossano, ond'ella per rincorarli, propose loro la perizia che più volte avea dimostrato il cavalier Calabrese in varie accademie di scherma, confortandoli a ricorrer a lui, siccome fecero; onde, quantunque egli cercasse scusarsene, pure alla fine, dopo molte preghiere fattegli, accettò l'impresa, e fu a trovare lo schermitore, col quale determinò il giorno in cui si sariano entrambi trovati sul teatro eletto per comodo degli spettatori. Venuto il giorno appuntato, grandissimo fu il concorso della nobiltà, e del popolo romano. Il cavaliere diede allo schermitore il vantaggio di scerre in quanti assalti volesse giuocare, e come egli volle tre assalti, rimase perditore il maestro, anzi carico di colpi al petto. Egli è vero però, che Mattia diede in eccesso, perché troppo riscaldato dello sdegno conceputo contro l'arroganza del maestro, lo disfidò con la spada nuda, né potendo lo schermitore scusarsene, fu il primo ad esser ferito in un braccio; per lo che avvilito cercava di scampare dal gran periglio, tutto che si vedesse sotto l'occhio della prima nobiltà di Roma; ma il cavalier Calabrese conosciuto il suo timore, con lo stesso trasporto della collera, dopo avergli guadagnato la spada, lo caricò d'ingiurie, chiamandolo poltrone, e rinfacciandogli la sua alterigia; e quindi spinto da maggiore sdegno, anzi da furore, prendendo la sua medesima spada per la punta accennò di percuoterlo in testa colla guardia, il che volendo quegli schivare, facendosi in dietro, venne a cadere all'ingiù avanti il teatro, e dando con la testa su di alcuni legni si fece danno notabile; sicchè assai maltrattato, fu soccorso da' suoi servitori, e menato in una carrozza al palagio dell'ambasciatore cesareo, ove egli alloggiava: così mal concio presentatosi a quel signore, si querelò agramente di essere stato soverchiato, giacché il duello da civile era divenuto sanguinoso, senza aversi rispetto al suo patrocinio, né a quello del medesimo imperadore. In somma commosse tanto l'ambasciadore, che pien di collera ordinò a' suoi bravi di dargli nelle mani il cavalier Calabrese o vivo o morto.

Quest'ordine fu penetrato da alcuni nobili, i quali ne fecero subito avvisato il Papa per messo di D. Olimpia Aldobrandini; onde Mattia fu fatto andar cautelatamente nel Vaticano, e salvato da quel primo furor tedesco: ma perché non cessava nell'ambasciadore la collera, e tuttavia cercava fare assassinare il cavaliere, fecelo il Papa segretamente accompagnare a Civitavecchia, e quivi imbarcare sulle galere di Malta, che in quell'isola lo condussero, raccomandato al Gran Maestro, dal quale fu accolto con segni di amorevolezza, e di stima.

Così dunque ben veduto il cavaliere, ed in una somma quiete attendendo a farsi conoscere virtuoso nella pittura, fece per quell'Eminentissimo un quadro con la decollazione di S. Giovanni Battista, e poscia il di lui ritratto, che fu somigliantissimo; ma fu d'uopo intermettere le opere di pittura, e dar principio alle sue caravane sulle galee, nel qual tempo avvenne, che un cavaliere di non so qual nazione, cominciò con parole pungenti a stuzzicare la pazienza di Mattia, motteggiandolo intorno alla nobiltà dei natali, e dicendo, che di chi sa esercitare l'arte della pittura, non sa quella del cavalierato, e in somma, che i pittori non facean caravane; questi e somiglianti motti sofferti per più giorni da F. Mattia il mossero finalmente un giorno a risentirsene, caricando quel cavaliere non sol di ingiurie, ma di ferite altresì, e tali che lo lasciò per morto: e perché il Gran Maestro per soddisfare e alla giustizia, e alla parte offesa volea che Mattia si presentasse in castello, egli credendo che a torto il Gran Maestro lo condannasse, per essere stato egli tante volte provocato, si partì fuggiasco sopra una filuca che andava a Livorno, lasciando in un delusi il Gran Maestro e molti amici del cavalier ferito.

Accadde ancora, che dopo alcun tempo, cercando egli di fare un'opera non so in quale Chiesa di Roma, fu assai contrariato da' concorrenti pittori, anzi un di essi ardì dirgli villanie con dispregio dell'opera di S. Andrea della Valle, il che commosse l'ira del cavaliere a segno tale, che non potendosi moderare lo ferì, e perché l'offeso pittore aveva delle grandi protezioni, anzi godea della grazia del pontefice allora regnate, fu costretto il cavalier Mattia per ischivare i rigori della giustizia ricoverarsi in Napoli nella fine dell'anno 1656, ove incontrò una nuova sciagura, imperciocchè essendo incominciato a cessare il pestifero morbo insin dal 15 del mese di Agosto per intercessione della B. Vergine, e de' Santi protettori, e temendosi non lo spento incendio si riaccendesse, il Vicerè, ad istanza degli eletti della città, e della deputazione della salute avea ordinato, pena della vita, che non si permettesse ad alcuno l'ingresso, nè che uomo al mondo osasse di passare gli stabiliti cancelli. Dalla qual cosa forse ignaro, il cavalier Calabrese si avanzò per passarli, ed entrare in città; e perché dopo varie altercazioni avute con le guardie, volle un di quei guardiani avanzarsi per maltrattarlo, egli senza dargli il tempo di appostargli contra lo scoppio, sguainata la spada con un colpo lo privò della vita, e tosto avventandosi all'altro di già avvilito, lo disarmò, acciocchè la morte del compagno non vendicasse; ma mentre che egli cercava con la fuga non essere da altri sopraggiunto, portò che incontrossi con alcuni della milizia urbana, che andavano visitando i cancelli, e mutando le sentinelle, i quali avendo veduta distesa morta la sentinella, e lui con lo schioppo nelle mani, e la spada insanguinata, e seguitato da colui al quale avea tolto lo schioppo, subito l'arrestarono; né fece Mattia alcuna difesa, vedendosi solo, e circondato da molti, e tutti armati di schioppi, pistole e spada; così fu adunque menato prigione a Napoli, dove intesosi il fatto, fu egli rinchiuso in oscuro carcere; tanto più, che egli era entrato per via della marina senza alcun passaporto, perciocchè si era frettolosamente imbarcato in Fiumicino su d'una barca che era per partire, e per fuggirsi da Roma, non avea avuto tempo nè modo d'ottenerlo dall'ambascidor cattolico. Non sapea dunque a qual partito appigliarsi, vedendosi in angusta prigione, con evidente pericolo di perder miseramente la testa, e tanto più, se in Roma si fusse saputo del caso, perché non avrebbe la parte offesa mancato di sollecitar quella corte, acciocchè scrivendone al vicerè, fusse stato egli per l'uno e l'altro delitto castigato. Ma il cielo che l'aveva destinato ad operare altre maravigliose pitture, dispose che la medesima sua virtù fosse un non aspettato mezzo di liberarlo.Mattia_PretiFaceano i deputati della salute fortissima istanza, acciocchè Mattia fusse condannato a morte, come quegli che avea violato i cancelli in tempi così delicati, ed era reo d'omicidio. Ma il discreto Vicerè ch'era il conte di Castrillo D. Garsia d'Avvillaneda & Haro condiscese misericordiosamente alle suppliche del cavaliere, ordinando che la causa fusse esaminata nel Consiglio Collaterale; donde nacque la di lui salute. Imperciocchè discorrendosi ivi la causa, e nominandosi spesso volte il nome di F. Mattia Preti, un personaggio ivi presente, si sovvenne esser Mattia quel virtuoso pittore, che stando egli in Roma avea conosciuto in casa di D. Olimpia Aldobrandini, dalla quale era tenuto in somma stima. Laonde ne fece parola col Vicerè a cui sedea d'appresso. Stava il Vicerè perplesso pensando che dovesse risolvere, quando il reggente S. Felice, ed il Consiglier Galeota, che poi fu ancora reggente, proposero l'offerta del cavalier Calabrese di dipinger gratis sopra la porta delle città le Immagini dell'Immacolata Concezione, di S. Gennaro, e di altri santi protettori, per adempimento del voto degli eletti, ogni qual volta volessero liberarlo. Così dibattendosi la causa buona pezza e la maggior parte sentenziando di morte, fu dal Vicerè decretato secondo la legge, che "Excellens in arte non debet mori", ma che in pena del delitto dovesse 'l cavaliere dipingere le porte

mentovate. In tal guisa fu terminata la causa, e liberato dalla prigione il cavalier Mattia, del cui valore in pittura furono da quel personaggio i signori deputati della città; fu anche raccomandato dal reggente Soria a' padri Domenicani di S. Domenico di Soriano, chiesa della nazione calabrese, eretta fuori la porta reale, o sia dello Spirito Santo.

Discorrendo dell'arte pittorica, Paolo De Matteis afferma: fu grande imitatore del nudo semplice senza il soccorso dello studio delle statue antiche, ma nel suo dipingere fu naturale, facile, e piazzoso, e da questo n'è il risultato, che le sue opere sono senza troppa nobiltà di contorni graziosi, nè mai le sue fisionomie sono gentili.

Dipinse tutte le porte della città di Napoli, le quali son numero otto, rappresentando in quelle la peste, opere veramente divine; ma il tempo, e l'aria a cui sono esposte, le ha quasi tutte consumate. Si ammira la soffitta de' PP celestini di S. Pietro a Majella da lui dipinta, e moltissime altre opere così in varie chiese, come in altri luoghi, e case private, in particolare in casa del principe di Sonnino, dove erano moltissimi quadri che si veggono di sua mano ... Dipinse in Roma con poca felicità l'opere di S. Andrea della Valle, avendo fatte troppo grandi le figure, le quali son troppo vicino all'occhio; del resto sono assai bene intese di contorni, se avessero la dovuta distanza; e tanto più fu infelice quest'opera, quanto che la parte superiore è dipinta dal gran Dominichino, e quel che importa, non fece mai meglio che in questo luogo.

Passò a Malta, e tanto piacque a quei religiosi cavalieri, che lo crearono cavalier di Malta, e fece infinite opere, tanto per servigio di religione nella chiesa di S. Giovanni, quanto per altre chiese, che arricchì quell'isola, e per altre parti del mondo fece assai opere."

Fu il cavalier calabrese alto nella persona, e corpulento; di volto gioviale, con occhi vivi, di color assai scuro, benché in questi ultimi anni impiccioliti per la vecchiezza. Ebbe il naso alquanto grosso, ma non eccedente, che disdicesse al viso, che era grande, e tondo, e proporzionato alla persona, che era più di sette palmi, alla quale altezza essendo proporzionata ogni altra parte del corpo, veniva a formarsi uno aspetto assai maestoso, che moveva a riverenza chiunque lo mirava,alche negli ultimi anni erasi accresciuta la canizie, e la fama delle sue gran virtù morali, talchè non era così ossequiato il Gran Maestro, quanto egli era da tutti inchinato per dovunque passava.

Il suo conversare era sommamente gradito da ogni ceto di persone, perciocché coi nobili era serio, coi civili giocondo, e faceto, coi plebei piacevole con gravità, e coi poveri era tutto amore, e carità.

Insomma, il cavaliere ebbe parti adorabili; e con que' pochi discepoli che ammaestrò, ebbe tanta carità che per istruirli spendeva molte volte il tempo, che doveva impiegare per le sue commessioni, ritoccando loro i disegni, e le pitture, e solea dire: Che il maestro era obbligato istruire il discepolo, ogni qualvolta l'aveva ammesso nella sua scuola, altrimenti se ne caricava la coscienza.

La sua morte fu dolorosa.

Aveva egli nel volto alcuni porri, ed uno fra gli altri ben grosso sulla guancia dritta. Veniva questo sovente intaccato dal suo barbiere, ma egli amava sommamente quest'uomo, sì per essere costumato e dabbene, come anche perché l'aveva servito quasi lo spazio di trentanni, lo compativa, ed avendo riguardo non meno alla gravezza degl'anni che al peso della di lui famiglia, mai non gli era dato il cuore il licenziarlo, tutto che gli tremasse la mano, e molte volte lo danneggiasse notabilmente. Un giorno accadde che radendo il barbiere, non solamente gli intaccò il porro, ma li lo troncò in tutto, laonde ne uscì gran copia di sangue, ed ebbe a medicarsi per molto tempo, inutilmente, anziché peggiorando di giorno in giorno, per la diversità de' rimedj applicati fuor di proposito, come avvenir suole, quando per ignoranza, e quando per furberia de' cerusici, che voglion tirare a lungo la cura, alla fine il male degenerò in gangrena. Questa dunque lo afflisse più di due anni, rodendogli insilo all'osso della mascella, e tirandogli alquanto la pelle di sotto l'occhio. Pasceano la forza corrosiva di quel male con riso cotto, ed altra simile materia, e così andossi temporeggiando per differir la morte del cavaliere che con somma pazienza soffriva; ma finalmente consumato nella parte più nobile morì a' 13 gennaio 1699 con dispiacere non solamente de' suoi conoscenti, e del Gran Maestro Perellos, ma di tutti universalmente, e con ispezialità, del caro suo amico Fra Camillo Albertini gran priore della Chiesa di San Giovanni.


Articolo in pdf


Inizio pagina


C O P Y R I G H T

You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the ©opyright rules included at my home page, citing the author's name and that the text is taken from the site www.oresteparise.it.

Il copyright degli articoli è libero. Chiunque può riprodurli secondo le @ondizioni elencate nella home page, citando il nome dell'autore e mettendo in evidenza che che il testo riprodotto è tratto da http://www.oresteparise.it/.