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Mezzoeuro

Un maledetto affare

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 10 del 9/3/2013


Rende, 5/2/2013


La drammatica vicenda dell'MPS con il suicidio dell'altro dirigente addetto alla comunicazione.

Vediamo perchè di banche si può anche morire.

Il suicidio di un alto dirigente del Monpaschi ha riacceso i riflettori sulla vicenda del Monpaschi. In questo clima di incertezza sul futuro del paese, scarsa considerazione è stata posta al ruolo che lo scandalo potrebbe avere avuto nel risultato elettorale.

Certamente vi è una diffusa percezione che vi sia una grave responsabilità del sistema finanziario nelle difficoltà che stiamo vivendo e che ormai si riverberano sull'intero corpo sociale.

Ad esso si addebita la responsabilità di aver provocato questa grave crisi, e non ne ha pagato il prezzo, al contrario ha ricevuto enormi risorse pubbliche che sono state utilizzate unicamente per tappare le falle.

Nulla è stato fatto per dare risposte sistemiche ed organiche alle cause, né a modificare i meccanismi che hanno generato questi risultati.

Il confronto tra gli introiti del Tesoro per l'IMU sulla prima casa e i Monti bond concessi al Monte dei Paschi per risollevarsi dalle proprie macerie ha lasciato il segno. Si tratta certamente di questioni molto diverse tra di loro e difficilmente paragonabili, però mettono chiaramente in luce che nelle banche si gioca una partita enorme, decisiva, per uscire dalla crisi, poiché si tratta di valori enormi. La sola partita MPS potrebbe paragonarsi ad una finanziaria.

È opportuno ritornare con la memoria alle terapie adottate nel 1929 del secolo scorso. il precedente che si può ritenere più simile a quello attuale. Una delle condizioni che ha consentito in quel frangente di affrontare il grave stato di disagio è stata la riforma del sistema bancario attuata qualche anno prima, nel 1926, che aveva dato allo Stato il completo controllo del sistema monetario e finanziario, con una netta separazione tra i due circuiti.

Si era creato un "sistema" complesso con la definizione di ruoli, limiti e vincoli dei vari soggetti: una divisione netta tra banca commerciale e banca di affari, la regolamentazione delle attività che poteva svolgere ciascun istituto, una ferrea disciplina della Vigilanza del sistema affidata in un primo tempo al Tesoro e successivamente alla Banca d'Italia, la capacità di intervento dell'organo di Vigilanza sulla governance e sulla gestione degli istituti per correggere le distorsioni che emergevano nel corso delle visite ispettive.

Il sistema bancario era, ed è rimasto per un cinquantennio, uno dei principali strumenti di governo dell'economia: un braccio operativo dello Stato che, benché soggetto a perniciose intromissioni politiche, ha garantito una transizione del Paese da una economia agricola a una grande economia industriale.

Questo sistema è stato smantellato con la riforma bancaria intervenuta negli anni novanta, che ha provocato uno shock: un processo convulso di crescita che ha generato un immenso patrimonio finanziario sempre più lontano dall'economia reale, fino alla creazione di una economia virtuale.

La grande illusione è stata quella di poter affidare il nostro benessere alle società piramidali, com'è avvenuto in Albania nel 1994-97, e continuare a mantenere il nostro ruolo internazionale con la forza dell'euro, piuttosto che con la qualità dei prodotti e la capacità di innovazione dei processi.

Il nostro sistema finanziario assomiglia molto a quella grande truffa albanese. Non si basa sull'offerta di interessi spropositati, ma sulle capacità taumaturgiche della speculazione, in grado di garantire favolosi guadagni immediati e crescita illimitata per il futuro.

Di fronte alle difficoltà attuali si stenta a trovare delle risposte perché gli strumenti tradizionali di politica economica sono venuti meno: lo Stato non ha più il controllo della circolazione monetaria, le banche sono diventate degli attori irresponsabili di politica economica, poiché obbediscono a logiche proprie che nulla hanno a che fare con gli interessi collettivi e non vi sono sufficienti strumenti di intervento per costringerli ad adeguare il loro comportamento alle esigenze collettive. Questo è il prodotto di una politica che non ha saputo predisporre in tempo i necessari correttivi per governare i processi che gli stessi governanti hanno favorito e provocato. La nascita della moneta unica in Europa è stato un processo di grande avanzamento della convergenza, ma non è stato seguito dai necessari aggiustamenti istituzionali necessari per poter acquisire il controllo sul sistema economico e finanziario. La grande riforma monetaria europea è stata un aborto per una lunga serie di motivi, ma soprattutto perché il processo è sfuggito di mano, e la stessa BCE non è in grado di controllare e governare i processi, ma si limita ad un ruolo passivo, quasi da spettatore. Il movimentismo di Mario Draghi, è stato proceduto dallo stato comatoso in cui i precedenti governatori hanno mantenuto l'istituto. Sono passati quasi tre lustri, ma solo da qualche mese si è cominciato a riflettere sul ruolo di questi mostri bancari. Per tutti questi anni si è favorito con ogni mezzo la crescita senza limiti di banche sempre più enormi, sempre più onnipotenti, che non dovevano rispettare alcun limite e alcun confine, fisico o politico.

L'obiettivo dichiarato era quello di far nascere un mercato bancario e finanziario dove concorrenza faceva rima con competenza, economicità, efficienza e tutte quelle belle parole che son utilizzate per giustificare la formazione di un sistema che alla fine è diventato altamente inefficiente e incontrollabile.

Le tanto sbandierate economie di scala hanno dei limiti fisici perché superata una certa soglia provocano una condizione di ingovernabilità: i grandi soloni che siedono nei consigli di amministrazione di questi enormi conglomerati finanziare semplicemente non sono in grado di governare processi così complessi, limitandosi a gestire la superficie dove si annidano gli interessi personali di questi grandi “magnager”, un termine che esprime molto bene la loro rapacità.

I principali difetti del sistema vanno ricercati in tre direzioni: la loro dimensione, la confusione dei ruoli e il sistema di governance.

Per quanto riguarda il primo aspetto bisogna porre un limite alla follia delle concentrazione, delle fusioni che vorrebbe far nascere entità sempre più grandi in grado di affrontarsi in una guerra finanziaria planetaria. La concorrenza è basata sui numeri, e restringere il numero delle banche significa ridurre la concorrenza e l'efficienza del mercato. In Italia ci sono troppo poche banche che non si preoccupano più dell'andamento dell'economia, ma di giocare sui mercati borsistici internazionali. I Monti bond concessi al Monpaschi rappresentano un sano intervento di politica economica, poiché evitano il collasso di un soggetto economico, la cui caduta avrebbe conseguenze disastrose sull'intero sistema economico. Tralasciando gli aspetti penali, di competenza della magistratura, quello che appare scandaloso e intollerabile è che non vi sia alcun meccanismo che assicuri che questo intervento non si traduca in un aiuto alla speculazione finanziaria, che si ritorce contro la stessa comunità che è chiamata a sopportare il peso del risanamento. I problemi del Monte si sono prodotto in gran parte per la sua attività speculativa, in misura molto maggiori di quanto abbiano inciso incagli e sofferenze. Questo impone una riflessione sulla necessità di ritornare a un sistema bancario che sia al sostegno delle famiglie e delle imprese e che la smetta di giocare a roulette russa con il sudore dei risparmiatori, una banca che abbia una dimensione tale da poter essere gestita da un management, e non essere spolpata dal magnagement, una banca che sappia interloquire con gli attori economici locali e non dedicarsi al gossip nei circoli del golf.

Le uniche vere banche rimaste in Italia sono le BCC che ancora si dedicano all'attività di intermediazione finanziaria, e sono in dimensioni tali che una governance competente è in grado di gestire e valutare le conseguenze delle proprie scelte. Non a caso solo hanno sostenuto l'economia fino alla fine, e oggi meriterebbero l'iniezione di risorse perché attraverso di esse si potrebbe veicolare un sostegno alla ripresa dell'attività produttivo e un incentivo al rilancio degli investimenti. Le piccole banche funzionano perché il controllo della Vigilanza è immediato ed efficace, perché riesce a vederne il comportamento nella sua totalità. Le grandi banche sono irresponsabili perché nella sostanza non rispondono a nessuno, perché possono sempre trasferire i loro problemi in sedi che sono fuori dal controllo delle autorità locali. Questo è stato vero fino adesso in assenza di una Vigilanza bancaria europea, che pur auspicata è dal di là dall'essere realizzata, ma lo sarà anche dopo se si consentirà a questi istituti di operare in maniera incontrollata al di fuori del territorio dell'Unione, senza opportuni correttivi.

Il sistema di controllo prudenziale che è alla base degli accordi di Basilea si è dimostrato del tutto inefficace a impedire il default degli istituti e la loro stessa dimensione (too big to fail, secondo una espressione americana), ha costretto i governi a dolorosi (per i cittadini) interventi per evitare il crollo dell'economia.

Con molto ritardo, e in maniera molto prudente, la stessa Banca europea si è accorta dei guasti della cosiddetta “banca universale” (un mostro che può fare tutto dappertutto senza controlli) e ha iniziato ad interessarsi del cosiddetto “rapporto Liikanen”, dal governatore della Banca di Finlandia che lo ha proposto, per la separazione della banca commerciale dalla banca d'affari, un intervento che dovrebbe essere adottato con immediatezza e completato con una legge antitrust che inverta la tendenza alla concentrazione degli istituti, ma finalmente si ponga l'obiettivo di realizzare “banche umane”, di dimensioni tali da poter essere realmente gestite, e che si dedichino al sostegno dell'economia.

La stessa Finlandia ha lanciato un altro messaggio in direzione dell'umanizzazione dell'economia. Il municipio di Helsinki ha approvato un regolamento con il quale si escludono dalla partecipazione agli appalti pubblici tutte le società che hanno la loro sede legale nei paradisi fiscali, dove si annidano i patrimoni della criminalità economica e politica. Un provvedimento che si potrebbe adottare per via legislativa e darebbe un enorme contributo alla moralizzazione dell'economia (e anche della vita pubblica).

La questione della governance è esplosa in maniera improvvisa per effetto del referendum svizzero. Un piccolo imprenditore Thomas Minder ha proposto un referendum per imporre un tetto agli stipendi e alle liquidazioni dei dirigenti d'azienda. Il risultato sorprendente è stato che il 68% degli elettori si è dimostrato favorevole nonostante i paventati rischi di una fuga dal Paese delle multinazionali e di queste prestigiose figure professionali.

La convinzione generale è che vi sia una evidente sproporzione tra competenze, capacità e retribuzione, oltre che una evidente ingiustizia. La concentrazione dei redditi e delle patrimonio costituisce uno dei più evidenti limiti alla crescita, poiché la compressione dei redditi disponibili della maggioranza della popolazione provoca una compressione dei consumi, degli investimenti e della produzione.

Un processo equitativo non ha solo un fondamento etico e morale, ma risponde anche alla capacità di crescita dell'economia. La soppressione della feudalità e della concentrazione della ricchezza ha provocato la fine del Medioevo e l'inizio della rivoluzione industriale.

Oggi il processo si è inceppato poiché le moderne tecniche produttive consentono una nuova forma di concentrazione, non più legata alla proprietà fondiaria. I latifondi sono sostituiti dalla proprietà dei mezzi di produzione. Il ruolo dello Stato è diventato fondamentale nella definizione di una politica industriale, ma soprattutto è diventato imprescindibile eliminare le distorsioni prodotto dalla concentrazione della produzione, che richiede la predisposizione di un sistema redistribuivo e perequativo dei redditi, dei patrimoni e dei ruoli sociali degli individui.

La governance delle grandi multinazionali e delle grandi banche intercettano una fetta enorme di ricchezza per il solo fatto di occupare una posizione nella società, un sistema retributivo che nulla o poco ha a che vedere con l'effettivo ruolo svolto, o con le competenze possedute e sono portatori di un inestricabile groviglio di interessi.

Si è accesso un grande dibattito in questo momento sul parassitismo dei politici, il loro cumulo di incarichi, l'inamovibilità, il conflitto di interessi, l'esorbitante entità dei loro emolumenti. Ma un peones in parlamento svolge un'attività ben inferiore a quella di molti di questi personaggi sconosciuti, e provoca sicuramente meno danni, è portatore di un conflitto molto più limitato rispetto a loro. I casi Cirio, Parmalat, Monpaschi, Alitalia mostrano con chiarezza che i valori in campo sono molto superiori al costo dell'intero Parlamento. Se vi è necessità di una regolamentazione dell'attività politica, altrettanto urgente è la definizione di regole in un campo che provoca conseguenze molto più rilevanti. Non è sufficiente imporre un tetto ai compensi, ma definire le compatibilità e incompatibilità, la durata degli incarichi e le responsabilità della loro azione. In particolare, non è più tollerabile che gli imprenditori o i manager possano entrare a far parte dei consigli di amministrazione delle banche. Questa era una limitazione prevista, con molta lungimiranza dalla legge bancaria del 1936, che è nuovamente diventata di grande attualità.

È del tutto incomprensibile come si possano tollerare retribuzioni milionarie e bonus di manager il cui unico merito è quello di aver portato le loro aziende al fallimento. Ma anche la produzione di profitti non deve far dimenticare che tra gli stakeholder dell'azienda vi sono lo Stato e l'intera collettività che gli consente di realizzarli, in assenza dei quali non avrebbero potuto conseguire quei risultati.

La grande sbornia della globalizzazione ha indotto a pensare che il “mercato” non doveva essere disturbato, che una mano invisibile ne avrebbe governato l'attività, e assicurato un corretto funzionamento. Siamo stati costretti a constatare quanto quell'assunto fosse errato. La deregulation doveva e deve eliminare le norme inutili, assurde, obsolete ma non inaugurare una stagione di nuovi arbìtri.

La nuova stagione politica che si è inaugurata presenta molte incognite e suscita ancora timori sulla governabilità, ma apre anche grandi speranze, poiché solo il furore giovanile unita ad una buona dose di incoscienza rivoluzionaria può provocare i profondi mutamenti necessari a una realtà in rapida evoluzione che richiedono misure drastiche e straordinarie.

Non è solo la politica che ha bisogno di un tagliando. Il pericolo che l'obiettivo dichiarato è puramente quantitativo. Il problema realmente urgente è quello della selezione di una classe politica e dirigente in grado di governare i grandi processi di cambiamento necessari per superare questa fase di stallo.

La riscoperta dell'economia reale è una grande opportunità per Sud, che non può sperare di potersi inserire nel grande gioco della finanza globale dove prevalgono giocatori spregiudicati e bari.

La grande rivoluzione non è quella di ridurre i compensi dei parlamenti, ma trasformarli in strumenti di cambiamento perché il risultato economico sarà di molto superiore agli spiccioli che si possono risparmiare con una compressione dei costi della politica.

La grande riforma del sistema bancaria è una grande sfida che coinvolge il progetto di unificazione europea. Vi sono interventi che possono essere realizzati su scala nazionale, ma le questioni più importanti e delicati richiedono misure da adottare in una scala più ampia.

Le grandi banche oggi sono diventate un affare per pochi, bisogna intervenire per renderle un'opportunità per la collettività.

Lo sguardo del lombrico può essere sufficiente a modellare una zolla. Per una opera di bonifica bisogna avere la visione dell'aquila.


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