OP

Mezzoeuro

L'ultimo Marchese di San Martino

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 16 del 20/4/2013


Rende, 15/4/2013


Don Gregorio Sambiase, in qualità di procuratore del Marchese Giacomo Alimena, e di sua madre Donna Laura Sambiase prende possesso del feudo di San Martino, preceduto dalle grida dei banditori e accolto in tripudio con un solenne "Te Deum" nella Chiesa Matrice.

Siamo nel 1792 e il lungo cammino del feudalesimo sta per concludersi, con tutti i suoi soprusi ...

San Martino, paese albanese

In Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, vol.VIII, Napoli 1804 si legge. “San Martino, terra di Calabria citeriore, in diocesi di Bisignano, distante da Cosenza miglia 20. È in luogo montuoso, ove respirasi buon'aria. Gli abitanti al numero di 1100 sono di origine albanese, e tutti trovansi addetti alla coltura del territorio. Nel 1545 fu tassata per fuochi 69, del 1561 per 98, nel 1595 per 55, nel 1648 per 69, e nel 1669 per 60. Un tempo fu casale di Sammarco. Si possiede dalla famiglia Alimena con titolo di marchesato”.

Il feudo era pervenuto agli Alimena dalla famiglia Rossi che l'aveva acquisito fin dall'anno 1502 per concessione del Principe di Bisignano, Bernardino Sanseverino, a Francesco Rossi “con tutte le giurisdizioni “a riserba solo della criminale, e delle prime, e seconde appellazioni”, che il concedente aveva ritenute per se.

L'estensione e i limiti del feudo di S. Martino venivano così delineati: “incipiendo dalla giunture dei fiumi di Ferolito, e di Finita nel tenimento di detta terra della Regina e per lo detto fiume di Ferolito in su sino al ponte di Lattarico e di là per lo fiume in su delle rupe fere per diritto al monte Cozzopilato, e di là fere alla serra per dritto allo Scupone, e dallo Scupone alle Porticelle, e fere alla crista dove confina col tenimento di Fuscaldo e per l'istessa crista fere al fiume di Finita e per lo fiume a bascio fere al ponte del mulino di Turano e di là a bascio fiume fiume alle giunture delli detti fiumi dove incomincia il primo confine”. (Nardi, op. cit. Vol. II pag. 432).

Nella lotta tra tra Luigi XII e Ferdinando il Cattolico, il Rossi e il Sanseverino dovevano essere stati dalla parte francese, giacchè si legge, in una delle memorie predette, che la terra di S. Martino essendo “per la fellonia del detto Rossi in occasione della guerra con la Francia (alla quale aderir vollero il Rossi e lo stesso Principe di Bisignano) decaduta alla Regia Corte, il Re Ferdinando il Cattolico la concedè a Carlo Papa, “pro se, et suis heredibus ex corpore”.1

Dal suddetto Carlo era pervenuta per successione a Ottavio Rossi e quindi alla sua unica figlia Camilla andata sposa di Fabio Alimena.

La più importante fonte sulla famiglia Alimena è Filadelfo Munos (Teatro genologico, vol. I,pag. 45).

“Annovera Flaminio Rossi nel suo Teatro d'Europa e d'Italia la famiglia Alimena fra le più antiche, e nobili della città di Cosenza, e Mont'Alto delle Provincie Napolitane, e vuole ch'ella da Greci derivasse, e 'l progenitor primieramente di lei in Cosenza (dice egli) che fosse stato un certo Eustachio cavalier Greco figlio d'Alimena Balia dell'Imperatore Basilio secondo figlio di Romano, col quale ella non puoco prevalse, e fu cagion ch'Eustachio venisse in Italia con carico d'Essarco de le predette Provincie, ma costui prendendo per stanza la città di Cosenza capo della Calabria citra, edificò ivi vicino una Terra, che dal materno nome la chiamò Alimena, e al diede con imperial licenza a Filippo suo figlio dopo il ritorno ch'ei fece in Grecia, i successori del quale poi presero per cognome il nome della loro Terra, cioè degli Alimena.”

Le stesse notizie sono riportate da Giovanni Fiore e più recentemente da Luigi Palmieri. D'Engenio Caracciolo e Ottavio Beltrano, indicano gli Alimena come una delle nobili famiglie di Montalto, che detennero il feudo di San Martino.

Alfonso Alimena, nato da Fabio e da Camilla Rossi diventa il primo barone della famiglia, avendolo ereditato dalla madre. Un nome che ricorre spesso nella genealogia del feudo.

Un feudo conteso

L'acquisizione del feudo diede origine a interminabili controversie e accese rivalità tra le due famiglie, i Rossi e gli Alimena.

Un segno dei rapporti acrimoniosi tra i vari rami della famiglia si ha in Montalto nella lapide policroma murata nella parete della Chiesa di S. Francesco.2

Venne fatta scalpellare, si dice, dagli Alimena di S. Martino la dicitura di una riga, quella che ricordava i titoli nobiliari del defunto Gerolamo Alimena, e che si ritenevano a lui attribuiti indebitamente dal figlio Domenico, ma costui, cavaliere di Malta, se ricordava che suo padre (del ramo di Diego) era dei “baroni” di S. Martino, indicava un'appartenenza esatta.

Un albarano (ricevuta di pagamento di un atto notarile) stipulato nel 1587, ratificato alla presenza del Governatore di Montalto D. Scipione Lattosa, sembra sancire la fine di ogni controversia e la stipula di una pace duratura tra le due famiglie. Ma questo non provocava la definitiva chiusura della turbolenze giudiziarie relative al feudo.

Ricostruire la vicenda non è un compito agevole. Mancano, infatti, molte tessere del mosaico, e sarebbe necessario setacciare i registri notarili per trovare gli eventuali atti necessari per una piena comprensione della vicenda.

È sufficiente riportare gli elementi ricostruiti da Carlo Nardi dove compaiono diversi protagonisti, come i Pignatelli come signori dei feudi di S. Martino, S. Benedetto e di Regina, il cui ruolo non è molto chiaro. Probabilmente lli avevano acquistato trovandosi poi coinvolti in una situazione debitoria disastrosa e costretti a cederli dietro pressione dei creditori. A rendere più intricata la vicenda è la scissione delle giurisdizioni tra civile e criminale che sono oggetto di separate contrattazioni. Negli atti non è sempre chiaro l'oggetto esatto della cessione, e i dubbi interpretativi consentono la riassunzione della controversia giudiziaria. A complicarne la comprensione, vi è la ricorrenza dei nomi; le omonimie non sono accompagnate da specificazioni anagrafiche (data di nascita, paternità e maternità) e questo rende dubbia l'esatta identificazione dei personaggi. Vi sono poi grandi salti tra una data e l'altra, che rende quasi impossibile una ricostruzione logica degli eventi in in un contesto cronologico preciso.

Solo la legge di eversione della feudalità emanata da Gioacchino Murat nel 1806, porrà definitivamente fine alla lunga lite per la sparizione dell'oggetto da contendere, poiché i feudi sono aboliti insieme con tutti i diritti fiscali, giudiziari e tutti gli usi e gli abusi in esso vigenti.

Ecco le notizie che si desumono dal Nardi. Fino all'anno 1620 la giurisdizione civile e criminale era stata posseduta da diversi padroni; quella civile da Carlo Papa e suoi successori, quella criminale dai Principi di Bisignano. Nel 1577 però, dal Principe di Bisignano Bernardino Sanseverino era stata venduta, colla terra della Regina e la giurisdizione criminale di S. Benedetto, a Pietro Paolo Cavalcanti di Cosenza, dal quale, nel 1592, “furono la Reina e 'l criminale d'amendue le dette Terre vendute ad Ottavio Pignatelli”. Costui, nel 1620, vendé la giurisdizione criminale della Terra di San Martino, col patto di ricompera quandocumque per ducati 2650, a Francesco Todesco di Montalto, che però aveva comperato per Ottavio Rossi, al quale l'aveva perciò retroceduta.

Il Rossi era così divenuto signore della giurisdizione civile e criminale e la sua signoria era continuata “senza verun turbamento fin all'anno 1639.

Era avvenuto che, dedottosi nel Sacro Consiglio ad istanza dei creditori il patrimonio dei due obbligati in solido Mario e Ottavio Pignatelli, baroni della Regina, di S. Benedetto e di S. Martino, si era proceduto alla vendita sub hasta della terra della Regina e dei casali di S. Martino e S. Benedetto senza farsi menzione che era stata venduta la giurisdizione criminale.

Il Principe di Tarsia, D. Ferdinando Spinelli, che si era reso aggiudicatario della vendita all'asta per 43mila, “avendo ottenute le provvisioni per capienda possessione, prese de facto il possesso non meno della Terra della Reina, che ancora della giurisdizione criminale di S. Martino, niun conto facendo della ragione di chi attualmente e con legittimo titolo la possedea”.

Contro l'usurpazione della giurisdizione criminale e l'arrogante modo di esercitarla, Ottavio Rossi era ricorso, contro lo Spinelli, al Sacro Consiglio. Nella causa erano intervenuti i creditori dei Pignatelli (evidentemente a loro premeva avere un altro cespite donde trarre la soddisfazione dei loro crediti) a sostenere che, nell'acquisto del Principe di Tarsia, era escluso quello della giurisdizione criminale di S. Martino, e che ad essi, quali creditori, in effetto era rimasto il “jus” della ricompera in vigor del patto di retrocedere quandocumque, apposto nell'istrumento della vendita, e poiché nella offerta fatta dal Principe per la compera della Reina niuna parola si leggeva intorno al suddetto jus della ricompera, … faceano istanza procedersi alla vendita dello stesso”.

Il Sacro Consiglio il 18 marzo del 1641 ordinava: “Possessio jurisdictionis criminalis Sanctii Martini restituatur Baroni Octavio Russo et nihilominus procedatur ad venditionem juris luendi praedictae jurisdictionis criminalis, et de deposito facto per Illustrem Principem Tarsiae liberentur eidem ducati 2.650”.

Dopo la morte di Ottavio Rossi, tuttavia, il barone Alfonso Alimena di San Martino (omonimo del nonno) riprese ancora una volta la lite contro il Principe di Tarsia che pretendeva nuovamente di esercitare la giurisdizione criminale nel feudo.

Questo Alfonso, sposò Maria Leuzzi e ne ebbe molti figli. Il suo primogenito Francesco ebbe, da Vittoria Caivano, Pietro Paolo, che da barone avanzò a marchese di S. Martino per motu proprio di Carlo VI d'Austria (datato da Vienna 20 marzo 1730).3

Il Marchese Pietro Paolo continuò la controversia giudiziaria a Napoli innanzi alla Regia Camera di S. Chiara con gli Spinelli principi di Tarsia, che si chiuse con sentenza del 26 aprile 1740, per la quale il Principe di Tarsia fu obbligato a vendere detto diritto agli Alimena “con tutti l'altri iussi e rendite che nella medesima terra egli possedeva”.

Con susseguente decreto del 10 dicembre “si diedero le provvidenze sopra tutti li punti controversi”. Fu ordinato che il prezzo della giurisdizione criminale delle prime, seconde e terze cause e della giurisdizione civile dei primi e secondi appelli, che erano “quasi” posseduti dal Principe di Tarsia nel feudo di S. Martino, rimaneva liquidato in ducati 1575, pagati i quali il Marchese poteva esercitare le predette giurisdizioni.

L'ultimo intronamento

Fin qui il Nardi. La questione continuò anche in seguito. Come risulta da un atto del notaio Michele Franzese di Cerzeto del maggio 1792, il Marchese di San Martino, Giacomo Alimena, e sua madre Donna Laura Sambiase, nominano procuratore del feudo Don Gregorio Sambiase, immettendolo nel possesso. Nell'atto viene descritto vivacemente l'arrivo del nuovo padrone, tra “Te deum” di tripudio e le chiamate del banditore in ogni più remota contrada per annunciarne l'arrivo, come avviene nelle favole. Il tutto è preceduto da un lungo preambolo in cui si chiariscono la legittimità dei titoli posseduti dal nuovo barone.

“Ricevute cosi le chiave del Palazzo Baronale che delli carceri e doppo di aver destinato il luogotenente per mancanza del Governatore il di lui consultore Dottor D. Antonio Dramis”, si legge nel documento, “i medesimi immediatamente hanno incominciato ad esercitare atti giurisdizionali e passato nella Chiesa Matrice esso D. Gregorio sedutosi nella sede sita nel medesimo luogo dell’altri antecessori alla presenza delli Mag.ci del governo attuali, de’ sudetti testimoni e di quasi tutta questa popolazione, si è cantato il Te Deum, e ciò pratticato son passato a far emanare banno per tutti li luoghi soliti e consueti così di questa su riferita terra che del villagio di S. Maria delle Grotte tenimento della stessa per essere riconosciuto per assoluto padrone, e per esso la suriferita Mag.ca D. Laura Sambiasi”.

Nello stesso atto vengono minuziosamente elencati i diritti detenuti nel feudo: “ casalinaggi e galine, ove a giornata, mastrodattia, doana, jus della zecca, portolania e montagna, il donativo di Pasqua e Natale, jus pali per la carcerazione di ogni bove dannificante, jus scanaggi, affitto del molino federatico in grano ed orzo tomolo dell’uno e mezzo dall’altro a paro di bovi, decima dell’animali minuti col giornale e giornale di cascio, con aversi di tutti i corpi di sopra descritti, ed intiero stato”.

Diritti e abusi feudali

Ogni feudo aveva i suoi particolari gravami, che spesso prevedevano una corresponsione in natura o prestazione di vario genere (lavori domestici o agricoli, servizi di custodia o di prestazioni varie chiamate angarie o parangarie), per sopperire alla quasi completa assenza di denaro. Il censimento fattone da Davide Winspeare in un volume ne elenca centinaia. Tra i più strani si ricordano lo “jus spicacii” (prestazione dovuta per la raccolta di spinaci selvatici) o lo “jus umbrae”, prestazione per usufruire dell'ombra di ogni albero del barone per usufruire della sua ombra! Alcuni erano particolarmente odiosi come ad esempio il diritto delle spighe, cioè di pretendere persino dalla spigolatrici una porzione delle spighe raccolte, sectis segetibus. Si potrebbe definire una tassa sulla miseria.

Quelli ricordati nell'atto sono i più importanti vigenti nel feudo di San Martino. Il casalinaggio viene definito dal Winspeare come la prestazione dovuta per i suoli delle abitazioni, delle capanne e de' tuguri. Il diritto di “galline” assume varie forme, il Winspeare ne elenca alcune: diritto di prendere per forza e di ammazzare le galline da parte del barone per suo uso personale, donativo di una gallina per ogni nuovo edificio costruito (anche una misera pagliaia), al barone erano anche dovute per ogni festa più importante (Natale, Pasqua, Santo Patrono ecc.)

Ove a giornata era obbligo di fornire un numero di uova giornaliero al Marchese ripartito tra tutti gli abitanti del villaggio, con la tenuta di una meticolosa contabilità.

Mastrodattia è la prestazione (in denaro o in prestazione lavorativa) dovuta per la redazione dei documenti del feudo (il mastrodatto è colui che redige i documenti di qualsiasi genere).

Lo jus della zecca era una prestazione dovuta a tale titolo, benchè i feudatari non avessero il diritto di conio (abuso dei diritti di zecca, o usurpazione della zecca come si esprime il Winspeare).

La portolania e la montagna, diritti che il Marchese esige per la difesa del casale e la fruizione degli usi civici nel bosco demaniale.

In aggiunta alla gallina, i feudatari dovevano un donativo al Marche nei giorni di Pasqua e Natale.

Lo jus pali era la prestazione dovuta per la costruzione di palizzate, recinti o ricoveri per gli animali che potevano essere nocivi all'agricoltura (come capre o tori o “bove dannificante”, che lasciato libero poteva arrecare danni alle colture).

Per gli animali indomiti (selvaggi, non addomesticati) era dovuto mezzo tomolo di grano per ogni animale indomito e animali dannificanti, e prestazione per l'affitto della casa ove si tengono rinchiusi.

Lo jus scanaggi, era la prestazione dovuta per la macellazione degli animali (pecore, capre, maiali, buoi), e la proibizione di aprire “chianche” (macellerie).

Gli abitanti del feudo avevano l'obbligo di servirsi del molino federatico in grano, e pagare la tassa di macinazione (jus moliendi).

Era inoltre dovuto un tomolo e mezzo di orzo l'anno per ogni paio di buoi posseduto e la decima dell’animali minuti(come galline, conigli, tacchini, colombe e gli altri animali di cortile), ciò significava che il Marchese era proprietario di un capo di ciascuna specie di animale ogni dieci da chiunque posseduti. Per consentire un esatto adempimento dei numerosi obblighi dei feudatari, è prevista la tenuta del giornale e giornale di cascio.

Oltre a quelle elencate nell'istromento citato, vi erano numerose altre prestazioni come la “gabella del fogliame” o la “prestazione sulle foglie” legate all'allevamento del baco di seta che era molto diffuso nel feudo, censite diligentemente dal Winspearee il diritto del Marchese di appropriarsi del frutto dei gelsi piantati nelle terre feudali.

------

Note

1. Gli aragonesi regnarono nel Regno di Napoli dal 1442 (con Alfonso il Magnanimo), fino al 1514 quando iniziò il periodo vicereale spagnolo.

2. Vedi Carlo Nardi, vol. II pag. 432

3. Per un breve periodo dal 1707 al 1734 il Regno di Napoli passò sotto il dominio degli Asburgo austriaci e divenne una provincia dell'Impero Austro-Ungarico.


Articolo in pdf


Inizio pagina


C O P Y R I G H T

You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the ©opyright rules included at my home page, citing the author's name and that the text is taken from the site www.oresteparise.it.

Il copyright degli articoli è libero. Chiunque può riprodurli secondo le @ondizioni elencate nella home page, citando il nome dell'autore e mettendo in evidenza che che il testo riprodotto è tratto da http://www.oresteparise.it/.