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Mezzoeuro

Un patriota albanese

di Oreste Parise

Mezzoeuro Anno XII num. 19 dell'11/5/2013


Rende, 9/5/2013


Nasce a San Demetrio Corone nel 1812 da una famiglia carbonara. Fin dalla nascita respirò aria libertaria.

Domenico Mauro è una figura chiave per rappresentare i personaggi calabresi considerati eroi dell'epopea unitaria. Egli nasce a San Demetrio Corone, un paese albanese della provincia di Cosenza il 27 dicembre 1812, da una famiglia carbonara. Il padre Angelo era un membro della carboneria che aveva fatto parte di una delle più attive cellule dei casali di Cosenza. Fin dalla culla il piccolo Domenico aveva respirato l'aria libertaria e antiborbonica, e l'aspirazione paterna di vedere finalmente nel regno un governo costituzionale.

L'organizzazione carbonara traeva la sua origine nelle logge massoniche che si erano diffuse in Calabria per opera del proselitismo operato da Antonio Jerocades e dal famoso grecista Pasquale Baffi, nativo di Santa Sofia d'Epiro che aveva dato un contributo importante a diffondere l'idea massonica tra gli arbëresh.

Un comune punto di contatto tra i liberali era il collegio di Sant'Adriano dove molte degli intellettuali arbëresh e calabresi si trovavano ad essere compagni di studi o si identificavano nell'influente gruppo degli ex alunni, che aveva acquisito una grande influenza nel Regno, per le posizioni di prestigio che essi riuscivano a raggiungere nel governo o nella gerarchia ecclesiastica.

Tutti e tre i fratelli Mauro, Domenico, Vincenzo e Alessandro frequentarono il Collegio, dove si respirava una aria intellettuale aperta alle più moderne teorie letterarie e sociali.

Nella sua biblioteca erano custoditi e potevano essere liberamente consultati tutti i testi dei principali pensatori europei che contribuiva una coscienza aperta agli ideali di giustizia e di libertà, diffondendo i valori del romanticismo nazionalistico e liberale.

Lasciato il collegio, nel 1831 lo troviamo nel Seminario diocesano di Rossano, dove fu mandato a studiare filosofia in un clima completamente diverso, ottuso e bigotto, dove come lui stesso scriveva si respirava un clima pesante “ligio al trono e al clero”, un conservatorismo opprimente che non riusciva a sopportare. Convinse il padre a mandarlo a Napoli, dove frequentò corsi di lettere e legge all'Università che accettava senza alcuna formalità gli studenti provenienti dal collegio italo-greco calabrese.

Nella capitale borbonica vi era una folta colonia di calabresi, che venivano tenuti d'occhio dalla polizia poiché considerati pericolosi per lo spirito ribelle e le idee rivoluzionarie che predicavano, e il giovane arbëresh destava molte preoccupazioni per quelle che venivano considerate delle eccentricità pericolose.

Aveva, infatti, raccolto attorno a sé dei giovani, attratti dalla fama della sua intelligenza ed erudizione, cui impartiva gratuitamente lezioni di letteratura, un'attività proibita senza autorizzazione da parte del governo, perché considerata sovversiva per la possibilità di diffondere idee pericolose per l'ordine costituito, cui si aggiungeva il vizio di scrivere articoli sui giornali locali. Una miscela esplosiva per un giovane calabrese.

Lo misero sotto osservazione, spiandone ogni movimento, e segregandolo in prigione per indagini, e fu liberato perché a suo carico non emersero fatti di particolare rilievo, tenuto però sotto costante osservazione.

Domenico Mauro però non li lascio condizionare e continuò la sua attività di pubblicista fondando nel 1840 addirittura un periodico ”Il Viaggiatore”, dove scriveva articoli considerata sediziosi e antigovernativi. Fu subito accusato di attività antigovernativa aggravata dalla sua frequentazione con ambienti liberali con i quali manteneva frequenti rapporti e scambiava una fitta corrispondenza; fu condannato e rinchiuso nel carcere di S. Maria Apparente nel 1843.

Durante il suo soggiorno in carcere cercò di mantenere i rapporti con la sua famiglia e gli ambienti liberali, informandosi costantemente sugli avvenimenti cosentini, dove era prevista una rivolta prevista per il 15 marzo 1844.

Le sue speranze andarono deluse perché la prevista sommossa si risolse in un fiasco clamoroso con una strascico tragico. Era un avvenimento che lo scosse in maniera particolare poiché coinvolgeva la comunità arbëresh cosentina e alla quale aveva tentato di partecipare con ogni mezzo disponibile. La infelice conclusione della sommossa con la scia di morti che si portò con sé, cui si aggiunsero i martiri dei fratelli Bandiera, lo scosse profondamente. Egli iniziò a dubitare che il governo borbonico fosse riformabile dall'interno, ma che l'unica via possibile era il suo abbattimento, un sentimento che doveva poi corroborarsi per gli eventi occorsi nel successivo 1848.

Nel 1845 riacquistò la libertà e continuò a restare a Napoli presso il fratello Vincenzo, per mantenersi in contatti con agli ambienti liberali e organizzare una nuova rivolta in Calabria.

Il 1848 il sogno di poter costruire una monarchia costituzionale sembrava essere a portata di mano. Il 27 gennaio la centrale Via Toledo veniva invasa da una immensa folle festante che si recava davanti al Palazzo reale a chiedere la Costituzione. Il re impressionato da questa marea umana e dal clima di entusiasmo nei confronti della corona, decisa di firmarla chiamando gli elettori ad eleggere il Primo Parlamento napoletano.

“Il popolo si era destato dal “secolare servaggio”, come si scriveva sui periodici. Era una grande vittoria per Domenico Mauro che veniva eletto deputato con una votazione plebiscitaria, avendo ottenuto quasi il 50% dei voti nel suo collegio.

Si trattava di un successo insperato che fu acclamato da una immensa folla e accompagnato da manifestazioni di giubilo e dalla speranza di poter finalmente inaugura una era di crescita e di sviluppo nel rispetto delle libertà politiche fondamentali.

Fu solo una illusione. Il re fu chiamato a Vienna dalle potenze alleate e gli venne imposto di annullare la carta, mentre a Napoli affluivano i deputati eletti che dovevano riunirsi a Monteoliveto per la sua approvazione.

Lo “spergiuro reale”, come venne definito, creò un clima di accesa rivalità nei confronti della monarchia, e a Napoli vennero innalzate barricate il 15 maggio per instaurare la Repubblica,mentre i deputati erano chiusi in Parlamento. Decisero di sciogliersi per evitare un bagno di sangue, ma ciò non impedì l'intervento dei gendarmi intervenne la polizia per arrestare quelli che venivano considerati i più facinorosi.

Domenico Mauro riesce a sfuggire alla cattura e rifugiarsi in Calabria, dove a Cosenza è nel frattempo scoppiata la rivolta e viene costituito un Comitato di Salute Pubblica. Vi facevano parte gli elementi più rappresentativi della provincia: Giuseppe Ricciardi, in qualità di presidente, lo stesso Mauro, Raffaele Valentini, Eugenio De Riso, Stanislao Lupinacci, Francesco Federici, Giovanni Mosciaro.

In tutti i comuni viene affisso un infuocato proclama scritto da Domenico Mauro, con il quale si invitano i calabresi a rivoltarsi contro il governo borbonico. Successivamente lo stesso proclama viene stampato sul periodico “L'Italiano delle Calabrie”.

A difesa dei rivoltosi, dalla Sicilia arriva un esercito di volontari al comando del generale Ribotty.

Domenico Mauro si reca a Paola a ricevere il corpo di spedizione siciliano e in quella occasione gli viene affidato l'incarico di Alto Commissario per il Distretto di Castrovillari con pieni poteri per predisporre la difesa della regione dall'attacco sferrato dall'esercito borbonico, al comando del generale Lanza, inviato dal re per ristabilire l'ordine in Calabria.

Il Comitato arruola volontari da tutti i paesi della provincia, i giovani accorrono numerosi, soprattutto dai paesi albanesi dove il prestigio di Mauro era molto elevato ed egli esercitava una forte influenza personale. Egli assunse il comando di questo esercito raccogliticci, formato da migliaia di giovani con poche armi e munizioni costituite esclusivamente da quelle di cui disponevano nelle case, senza alcuna preparazione e inferiori comunque di numero rispetto alle truppe del generale Lanza.

A questo si aggiungeva l'impreparazione militare dello stesso Domenico Mauro, che fidando nella sua intelligenza e nella cultura classica, con molta supponenza non tentava neanche di concordare una linea di azione con il generale Ribotty, che certamente aveva una maggiore esperienza e poteva predisporre un piano di difesa più adeguato alle condizioni del terreno e alle forze in campo.

Lo stesso Ribotty guardava con molta sufficienza questo giovane arrogante, la cui unica arma era una supponenza difesa con una oratoria affascinante, ma incapace di una visione delle operazioni da compiere.

“A Campotenese in opposizioni ai borbonici del gen. Lanza, le forze del Mauro fecero quanto era possibile”, scrive Mario Borretti autore di una sua biografia, ma gli atti di eroismo nulla poterono contro le truppe del Lanza ed andarono incontro ad una rovinosa sconfitta. Negli scontri rimase ucciso anche Vincenzo Mauro, fratello di Domenico.

Domenico Mauro fu persino accusato di tradimento per non essere riuscito a fermare l'esercito napoletano, lasciando sul terreno molti giovani calabresi, la maggioranza dei quali era arbëresh, che diedero un altro tributo di sangue.

Bisognerebbe piuttosto parlare di arroganza e di incompetenza, poiché la disparità nel numero e negli armamenti avrebbe dovuto consigliare una condotta più prudente, evitando lo scontro in campo aperto.

Scrive al proposito Francesco Tajani. “Siculi e Bruzi uniti, ma scarsi di armi e munizioni, con molti capi, quasi tutti nuovi al mestiere della guerra, dovevano precludere la via ai regî per ignote direzioni posti già in moto. I paesi albanesi concorsero tutti, Civita, Percile, Frassineto, San Basile, Lungro, Firmo, Spezzano costituir potevano punti fermi di una linea sulla sinistra sponda del Crati, appoggiati ai monti, e mantenere una lunga guerra difensiva diretta a travagliare i nemici nelle valle, se concatenati si fossero tutti quanti ve ne sono tra le gole del Tanese e Cosenza.”

La confusione provocata dagli ordini contraddittori e l'evidente inferiorità delle forze portarono a uno scoraggiamento di quei giovani che si risolse in una precipitosa fuga nel timore che si potesse concludere con una spaventosa strage. Nel frattempo nuove truppe arrivavano da Napoli comandate dal generale Busacca e non si riuscì ad impedire che si riunissero formando un corpo d'armata contro il quale qualsiasi tentativo di resistenza sarebbe stato inutile perché troppo superiore per truppe, armamenti e capacità strategiche. I rivoltosi furono costretti a capitolare e sciogliere il Comitato di Salute Pubblica.

“Molto fu se i siculi riuscirono ad imbarcarsi nei legni sul mare Ionio, e tutti gli armigeri sopra Cosenza ripiegarono,” aggiunge il Tajani.

Immediatamente fu una Corte Criminale per la “grande processura” contro i componenti del Comitato e gli insorti.

Il 13 novembre 1853 Domenico Mauro, “uomo infernale e nemico di ogni governo”, venne condannato a morte col terzo grado di pubblico esempio con l'accusa di cospirazioni continuate ed attentati al fine di distruggere e cambiare la forma del governo e di eccitare gli abitanti del regno ad armarsi contro l'autorità regia. La sentenza, dove veniva definito settario e agitatore politico, autore di un proclama “sommamente sovversivo ed incendiario”, venne pronunciata dal procuratore generale, Gaetano Grimaldi. Molti altri furono condannati a pene severissime che dovevano servire da esempio e monito. Per dare maggiore pubblicità al processo di dispose che la sentenza venisse affissa in tutti i comuni del Regno e resa pubblica con regolare affissione e bando pubblico.1

Domenico Mauro però era riuscito a fuggire ancora una volta, imbarcandosi a Crotone, dove era arrivato insieme con i soldati siciliani del generale Ribotty. Si diresse alla volta di Corfù insieme al suo inseparabile compagno Eugenio de Riso e qualche altro, dove trovarono una favorevole accoglienza.

Nell'isola greca si fermò poco tempo, poiché desiderava tornare in Italia. Prima si recò a Roma in soccorso della Repubblica e poi a Firenze per chiedere al primo ministro liberale Guerrazzi un aiuto per provocare una rivoluzione liberale nel Mezzogiorno, ricevendone una accoglienza fredda e formale.

Si vide costretto a cercare asilo a Torino dove vi era una volta schiera di fuoriusciti colpiti dalla reazione dei vari stati italiani. Tra di essi vi erano i calabresi Romeo, e Antonino Plutino, il siciliano arbëresh Francesco Crispi, che venivano sussidiati da un Comitato Centrale per l'Emigrazione, uno strumento mezzo escogitato dal conte di Cavour per attrarre i liberali italiani e convertirli alla causa sabauda. Il sussidio2 e qualche lavoro saltuario diedero al Mauro la possibilità di una dignitosa esistenza nella capitale sabauda e lo misero in contatto con gli ambienti liberali di orientamento monarchico che facevano capo al primo ministro.

Il soggiorno torinese mise a dura prova il suo repubblicanesimo, e finì per convincersi che solo uno stato monarchico unitario, sotto l'egida sabauda avrebbe potuto dare la libertà al Sud, che era il suo pensiero fisso. Con gli altri emigrati preparava continuamente piani per promuovere il sollevamento del Sud, e per questo ebbero anche degli abboccamenti con lo stesso Cavour.

I suoi sentimenti repubblicani che aveva espresso con molto vigore sui giornali torinesi portarono a un decreto di espulsione, che non venne eseguito poiché nel frattempo egli si unì al gruppo di fuoriusciti che a Genova preparavano la spedizione garibaldina.

Il 5 maggio del 1860 si imbarca con Garibaldi alla volta di Marsala, partecipando alla marcia trionfale verso Napoli. E' presente nelle battaglie di Calatafimi e Milazzo e il generale lo premia nominandolo prima capitano e successivamente Giudice del Consiglio Permanente di Guerra dell'Esercito Garibaldino.

Al passaggio in Calabria, prima favorisce la capitolazione delle truppe borboniche a Soveria Mannelli e poi con il carisma di cui gode presso gli arbëresh, e ne provoca un rilevante afflusso nell'esercito garibaldino: centinaia di loro ripongono sul generale la loro ansia di libertà ed equità sociale.

La sua missione sembra compiuta con l'arrivo di Vittorio Emanuele e la formazione dello Stato unitario costituzionale. Ma le delusioni sono molte tante ed amare.

Fin dallo scioglimento dell'esercito borbonico si intravedono le prime difficoltà per le palese discriminazioni ai danni dei meridionali. I garibaldini vengono rispediti a casa senza alcun benservito e si assiste a una restaurazione delle vecchie gerarchie sociali.

Domenico Mauro si dedica appassionatamente all'attività politica schierandosi nell'ala sinistra contro governo liberale che si schiera apertamente a difesa delle classi privilegiate con provvedimenti fiscali punitivi nei confronti dei più deboli. Egli denuncia i soprusi e gli errori della unificazione che assomiglia più a una conquista coloniale che alla formazione di un moderno stato democratico.

“Le controversie per l'inserimento dell'esercito meridionale con l'assorbimento dei garibaldini nell'esercito nazionale e l'amarezza del Mauro e di tanti altri suoi simili nel constatare che le carezzate speranze nel futuro Stato italiano erano state mal riposte e la considerazione che lo scetticismo degli anni passati, trovava nel presente la sua più valida giustificazione”, scrive Mario Borretti.”

Si presenta e viene eletto per due legislature a Lucera e stabilisce la sua abitazione a Firenze, diventata la capitale del Regno, e vi risiede anche quando non è più membro del Parlamento, e viene nominato Prefetto del Regno.

Muore per un carcinoma alla mascella destra il 17 gennaio 1873, all'età di 61 anni.

Il suo pensiero politico non ha mai avuto la forza di un progetto programmatico, e spesso cambia opinione cercando di adattare le sue idee alle circostanze, ma gli viene riconosciuta una grande onestà intellettuali. Le sue prese di posizione possono ritenersi poco convincenti ma non sono mai dettate da interessi personali. E' uno dei pochi membri del parlamento a rendersi conto del grave stato di disagio del sud che subisce l'unificazione e viene mortificato per le decisioni che si rivelano sempre contrarie ai propri interessi.

Il suo rifiuto di lasciarsi corrompere dalla sirene del potere gli consente di guadagnare una larga popolarità, ma il dorato esilio fiorentino gli impedisce di dare un contribuito significativo al miglioramento delle condizione della sua terra che era stata una costante della sua attività politica e letteraria.

Domenico Mauro è uno scrittore molto prolifico, ma la maggior parte dei suoi manoscritti non sonno mai stati pubblicati. Tra le principali opere pubblicate si annoverano il poema Errico del 1843, il saggio Vittorio Emanuele e Mazzini , Genova, Ponthenier, 1851 e Concetto e forma della Divina Commedia , Napoli, Stabilimento tipografico degli scienziati, letterati ed artisti, 1862, che ebbe una grande fortuna in particolare all'estero.

Francesco De Sanctis ne traccia un ritratto molto lusinghiero. «Era un uomo semplice, che non parlava mai di sé; stimava naturali tutte le azioni che il mondo chiama eroiche, quasi egli non sapesse o non potesse fare altrimenti. Non aveva mai creduto che compiere il proprio dovere fosse scala a ricompense».


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