Goal!

di Oreste Parise

"Andrea, passala a Miki sulla destra. Non lo vedi che è solo!"

Sentendosi chiamare dalla voce roca di Antonio, il Professore di ginnastica, si fermò di botto e si guardò intorno. Con la coda dell'occhio vide Miki tutto solo sulla destra del campo. Senza pensarci un attimo gli passò la palla. Osservò il suo cross e restò meravigliato di sé stesso. Il suo tiro era fantastico, sembrava una pennellata di Totti. Il pallone salì in alto e poi cominciò a scendere lentamente, completando una parabola perfetta. Miki guardava scendere lentamente il pallone e lo vide posarsi proprio suoi piedi. 

"Forza, Miki, corri!",  gridò, Antonio.

Si mise a correre come una gazzella. Non vedeva più niente intorno a sé. Gli avversari cercavano di fermarlo, tirandolo per la maglietta, strattonandolo, cercando di sgambettarlo. Non c'era niente da fare, la palla sembrava incollata ai piedi di Miki che continuò la sua corsa dribblando mediani, terzini e perfino il portiere che gli era corso incontro, con una serie di finte, fino ad arrivare solo davanti alla porta. Tirò un calcio potente, senza guardare e chiuse gli occhi. Per una attimo la palla sparì allo sguardo di tutti. Poi la rete si gonfiò. Sembrava volesse scoppiare.

"GOAL!" Urlò Antonio. "GOAL!" Urlarono tutti con quanto fiato avevano nei polmoni. Era un urlo liberatorio, la fine di un incubo vissuto troppo a lungo. 

Andrea aveva seguito con il cuore in gola la lunga corsa di Miki e per primo andò a cercarlo. Lo placcò stringendolo in lungo abbraccio. Poi tutt'e due furono travolti dai compagni venuti anche loro a partecipare alla grande gioia. Miki si ritrovò sommerso da un mare di braccia, di gambe e di teste che lo soffocavano. Non riusciva a respirare, a far scoppiare la sua gioia. 

Sentì il doppio fischio dell'arbitro che annunciava la fine della partita. Avevano vinto! La prima vittoria del Commerciale contro quei presuntuosi del Liceo Classico. Proprio lui aveva segnato il goal decisivo, il più bello, un goal da grande campione. Ne avrebbero parlato tutto l'anno e sarebbe diventato l'eroe dell'Istituto.

Appena riuscì a liberarsi cominciò a correre per tutto il campo. Tania gli si parò davanti a braccia aperte. Lo strinse e gli diede un bacio. Si sentiva svenire. Proprio lei la più bella e desiderabile della classe era tra le sue braccia, i suoi capelli d'oro lo avvolgevano tutto, non poteva crederci. Qualcuno lo strattonò e finì quel magico momento. Riprese la sua pazza corsa intorno al campo, fino ad arrivare sfinito tra le braccia del Prof. Antonio. 

"Abbiamo vinto, vero, professore?"

"Certo, Miki. Ed è tutto merito tuo, sei stato veramente fantastico. Chiamami, Antonio. Sei un eroe per tutto l'Istituto da oggi. Ma dove hai imparato a giocare così bene? Non lo immaginavo proprio. Fino ad oggi sembravi impacciato, non partecipavi alle azioni. Sono rimasto molto sorpreso della tua grinta, della classe ..."

"Grazie, professore. Ad Urfa tutti i ragazzi amano giocare a football e fanno il tifo per le squadre italiane. Giocavamo sempre in qualsiasi parte, per strada, nei campi. Tutti sognano di diventare come Francesco Totti o Bobo Vieri. Quando mi sono sentito chiamare, ho sentito  che non potevo deludervi. Forse, non riuscirò mai più a ripetere una azione così bella, non so neanche io come ci sono riuscito."

Il Professore lo prese sotto il braccio avviandosi lentamente verso gli spogliatoi, che poi non erano altro che dei piccoli box in cemento. La doccia non c'era, ovviamente. Ne era rimasta solo qualche traccia. Dopo la consegna della palestra che stava sui bordi del campo non aveva mai funzionato ed era stata smantellata pezzo per pezzo. Ma gli sembrava bello lo stesso quel campo, ripensando alle lunghe partite nelle strade con palloni di pezza.

"Dammi del tu, voglio che mi consideri un amico. Raccontami di te, Miki. In classe non si riesce mai a parlare. Perché tutti ti chiamano Miki?"

"Io mi chiamo Ahmed e vengo dalla Turchia. Abitavo ad Urfa, Sanliurfa per i turchi. È una città molto bella, piena di verde e di acqua. È  la patria del Patriarca Abramo, il nostro eroe nazionale. Abramo era un curdo, professore, anche se nessuno lo vuole ammettere, ebrei, arabi, turchi ognuno lo vuole suo. Ci hanno tolto tutto a noi curdi, non possiamo neanche parlare la nostra lingua. Io frequentavo il liceo e studiavo anche l'italiano. Sono stato sempre innamorato dell'Italia. Un giorno in classe parlavamo in curdo ed il professore di matematica ci ha denunciati alla polizia. Sono venuti a prendere mio padre accusandolo di essere un cospiratore che preparava attentati contro lo Stato. Lo hanno tenuto in prigione per molti mesi."

"Possibile, Miki, solo per questo lo hanno messo in prigione. Scusami, volevo dire Ahmed ..."

"Non importa, tutti mi chiamano così, ormai. Ha cominciato Tania, la ragazza del primo banco con la scusa che il mio nome era troppo complicato. Mi è subito piaciuto quel nuovo nome, mi sembrava così dolce. Ogni volta che mi chiamano rivedo lei, i suoi lunghi capelli biondi. Vedete, professore, veramente noi volevamo imparare il curdo e trascrivere le poesie che ci recitava la nonna. Lo sapevamo che era proibito e lo facevamo di nascosto. Lo sapevano tutti nella scuola, ovviamente, ma ci guardavano con simpatia. I nostri professori erano curdi ed erano contenti del nostro interessamento per la nostra lingua. Solo quando è venuto ..."

Non fece in tempo a finire la frase. Erano sopraggiunti i suoi compagni e cominciarono a dargli delle pacche sulla spalla, ridendo di gran gusto. Alfredo gli diede una spinta e Miki stava per cadere per terra. Trasalì e divenne improvvisamente scuro in volto. Sentiva salirgli un nodo in gola, tratteneva a stento le lacrime. Le scarpa destra si era aperta, quel calcio potente aveva fatto scollare la suola. Erano l'unico paio che possedeva, la mamma le aveva comprate con grandi sacrifici qualche giorno prima. 

Avevano fatto il giro di tutti i negozi di Cosenza per cercare qualcosa di economico. Alla fine le avevano comprate dai cinesi per trenta euro. Sembravano robuste, ed ora erano diventate inservibili.  La gioia si era trasformata  in angoscia. Pensava al dolore che avrebbe provocato a casa, dove la notizia sarebbe stata accolta come un grave lutto. 

Si mise a piangere lasciando di stucco tutti i suoi compagni. Lasciò il campo e rientrò immediatamente nella sua classe. Tutti si chiedevano quale fosse stata la causa di questo improvviso cambiamento di umore. Solo Andrea, il suo compagno di banco lo intuiva, avendo notato come si guardava le scarpe con gli occhi pieni di terrore. 

"Per fare il goal Miki ha rotto le scarpe. È l'unico paio che possiede, me lo diceva l'altro giorno. Era molto contento. Avrà sicuramente difficoltà a ricomprarle", disse Andrea ai compagni.

"Facciamo una colletta e gliene compriamo un paio nuove, dai. Professo', pure voi dovete partecipare!"

Svuotarono tutte le tasche e raccolsero i soldi che avevano, il Prof. Antonio aggiunse dieci euro, ma erano ancora poche. Videro passare il  vecchio parroco, un grande brontolone, e lo chiamarono a gran voce. Gli spiegarono la situazione.

"Credo di aver fatto abbastanza per i curdi, e poi proprio a me chiedete di aiutare un musulmano. Vi posso dare solo un contributo personale ..."

"Non c'entra niente questo", dissero tutti in coro, " Miki è il nostro eroe oggi e non possiamo mandarlo a casa con le scarpe rotte. E poi la carità cristiana non dovrebbe fare tutte queste distinzioni."

"Va bene", piccoli monelli, "andate al negozio di Dora a nome mio e comprate le scarpe. Mi auguro che sappiate almeno il numero che calza. Dategli i soldi che avete raccolto, per il resto ci penso io. Ma che sia la prima e l'ultima volta. Non si possono fare particolarità ... Anche gli altri avrebbero bisogno, e non ci sono solo i curdi qui, lo sapete bene.." E si allontanò continuando a brontolare.

"Bravo Don Giuseppe, evviva Don Giuseppe", gridavano in coro, "lo sappiamo bene il suo numero...".

Quando rientrarono una mezzora dopo, lo trovarono addormentato sul banco, con la testa poggiata sulle braccia conserte. La professoressa Elisa lo guardava in silenzio per non disturbarlo.  Aveva visto i suoi compagni allontanarsi e per distrarsi pensò di ripetere la lezione.  Si era messo a leggere cantilenando, ma gli occhi si rifiutavano di restare aperti, il capo diventava sempre più pesante, fino a sembrargli  insopportabile. 

"Mi riposo un poco", pensò, "solo qualche minuto". Si era appisolato quasi subito. La lunga corsa e la grande emozione lo avevano sfinito.

Era una maestra severa Elisa, ma nascondeva dietro un aspetto arcigno il suo attaccamento per quei piccoli uomini pestiferi che riempivano la sua vita. Li pensava spesso la sera, quando restava sola con la televisione accesa, continuamente a fare zapping nell'improbabile ricerca di qualcosa che potesse riempire il vuoto che le aveva lasciato la perdita di suo marito.

Guardava il capo riccioluto di Ahmed, i suoi capelli nero corvino e ritornava con la mente al primo giorno che lo aveva visto entrare in classe qualche anno prima. A prima acchito sembrava un contadinello di Aprigliano, dall'aria che lei non sapeva ben decifrare, tra l'insolente ed il timido, ma aveva qualcosa che lo rendeva diverso.

"Come ti chiami?"

Il ragazzo aveva spalancato gli occhi interrogativi, un po' stralunato, come se volesse concentrarsi a rispondere. Dopo qualche secondo di imbarazzo aveva sbiascicato qualcosa di incomprensibile. La voce era ferma, lo sguardo austero quasi di sfida.

"Guarda quest'insolente", pensava Elisa, "ma presto imparerà a conoscermi e vedremo se avrà ancora quest'aria di sfida".

Prima di aver avuto il tempo di dire alcunché dal fondo della classe si sentì urlare allegramente.

"Quello è turdo1, professoressa", disse Alessandra, una ragazza bionda seduta in un banco in fondo all'aula. 

"Come ti permetti, Alessandra. Che cosa vuoi dire?"

"Lo prende sempre in giro perché è curdo." Intervenne Andrea, un ragazzo biondo con i capelli insolitamente lunghi. Si chiama Ahmed Ahmadi. Sono venuti in paese da poco e non sa ancora parlare molto bene l'italiano."

Dopo tanti anni di insegnamento era la prima volta che gli capitava un caso simile. Aveva avuto dei ragazzi "stranieri", quasi tutti "germanesi", ma erano figli di emigranti. Non sapevano l'italiano, ma conoscevano il dialetto come i loro compagni. Ora la cosa era diversa, si trattava proprio di un forestiero. Voleva mostrare sicurezza, ma non ricordava chi fossero i curdi, in quale paese vivessero e così via. Aveva fatto una lunga ricerca, e divorato qualsiasi notizia che aveva potuto trovare, con l'aiuto dei suoi ragazzi perché lei era spaventata delle nuove tecnologie. In Internet avevano trovato un bel po' di documenti, con sua grande meraviglia. Ancora gli sembrava un miracolo che quella scatoletta contenesse tante informazioni. Doveva assolutamente decidersi di affrontarlo quell'aggeggio infernale un giorno o l'altro.

Com'era cambiato da allora. Ahmed. Si era inserito perfettamente con la scolaresca, parlava bene l'italiano e spesso usava persino il dialetto calabrese. Suonava buffo sulla sua bocca. 

Miki sognava ancora la partita, la sua azione quasi miracolosa ed il goal, alla fine, in zona Cesarini. Il cuore sembrava scoppiargli nel petto per la felicità. Poi nel sonno gli apparve una enorme scarpa con uno squarcio che diventava sempre più grande. Dall'interno fuoriusciva un piede gigantesco come quello di un orco che sembrava volesse schiacciarlo. 

Rientrando i compagni decisero di fargli uno scherzo. Sistemarono la scatola con le scarpe sul fianco destro del banco in modo che alzandosi vi inciampasse. Gli sfilarono le scarpe dai piedi con grande cautela per non svegliarlo. Poi si sedettero tranquillamente nei banchi facendo finta di continuare la lezione, con la complicità della professoressa. Cominciarono una discussione rumorosa, commentando il grande avvenimento della giornata.

Si risvegliò nel panico, si guarda i piedi nudi, cerca di nasconderli, di non farsi notare. Ma gli sguardi di tutti sono puntati su di lui. Non sapeva come sfuggire a quella curiosità.  Si alzò e nel tentativo di uscire dal banco inciampò, come avevano previsto i suoi compagni, nella scatola delle scarpe. Si udì una fragorosa risata. Miki era fuori di sé dalla rabbia, non capiva quell'accanimento contro di lui, proprio quel giorno.

"Ahmed", gli dice Andrea, "nessuno te lo aveva detto, ma per il miglior giocatore delle due squadre c'era un paio di scarpe come premio ed all'unanimità è stato deciso che quel premio è tutto. Stanno lì dentro, Miki". 

Aprì lentamente la scatola e ne fuoriuscì uno splendido paio di Todd's, nuove fiammanti. Non credeva ai propri occhi. 

"Sono tue, Ahmed", gli diceva Elisa. Si fermò stupito, non riusciva a capire se fosse vero o si trattava di un altro stupido scherzo. 

"Non è un regalo, solo il premio per il miglior goal realizzato durante il torneo interscolastico. Sei diventato famoso in tutto l'Istituto. Tutti ti chiameranno Bobo da oggi in avanti". 

"Ma io ho fatto solo goal, in una  partita tra compagni". Voleva protestare, gli sembrava troppo. Era l'unica partita alla quale aveva partecipato, mentre gli altri compagni si erano dannati l'anima per mesi per giungere alla finale del torneo. Pensava che sarebbe stato più giusto premiare Simone, il capitano della squadra che si era impegnato allo spasimo in ogni incontro.

"Ma lo hai fatto con il cuore, ci hai messo l'anima, la forza di volontà. Sei stato tu il migliore. Meriti il premio", diceva Andrea a nome di tutti i compagni. 

"Anzi, abbiamo deciso che stasera veniamo tutti da te, ognuno porterà qualcosa e così facciamo una bella festa. Tu non devi preoccuparti di nulla", aggiunse Carlo.

"Adesso tutti a casa", disse Elisa con tono imperioso e burbero, cercando di nascondere una lacrimuccia che si ostinava a volere uscire dagli occhi  gonfi. Era orgogliosa dei suoi ragazzi che si erano dimostrati così generosi, spontaneamente, del loro senso di solidarietà e del bel gesto che avevano compiuto in maniera così leggera, sorridendo.

Amhed corse veloce verso casa, non vedeva l'ora che sua mamma vedesse le sue scarpe nuove. E poi quelle vecchie potevano essere riparate e avrebbe potuto usarle per le prossime partite. 

Ci fu un gran trambusto quel pomeriggio in casa Ahmadi per preparare la grande cena. Da quando si erano trasferiti da Badolato, il sindaco gli aveva messo a disposizione la vecchia stazione delle Ferrovie calabro-lucane che erano state ristrutturate da poco. Era un bel posto in mezzo ai monti. Si erano trovati subito benissimo. Certo il lavoro non era proprio il migliore, papà Nahzum faceva l'operaio in una falegnameria, mentre mamma Yildiz si arrangiava come baby-sitter, a volta come cameriera e badante. 

"Un po' assomiglia al nostro Paese, con tutto questo verde ed il bosco", ripeteva papà Nahzum. "Anche se non c'è paragone con la nostra montagna, l'azzurro del cielo, la purezza dell'aria". In Turchia era un ingegnere, poteva dirsi benestante fino a quanto non era incappato nella giustizia turca. Gli piaceva quella poesia del loro amico Talip, gli ricordava quei lunghi giorni da carcerato, quando l'unica ragione che lo tenesse in vita era il pensiero che prima o poi sarebbe tornato dai suoi cari. Gli piaceva ripeterla nelle lunghe serate d'inverno, mentre la moglie Yildiz lo guardava teneramente. "Non ci pensare, più. Per fortuna sono lontani quei momenti". Ma quelle parole lo ossessionavano e continuavano a ronzargli per la testa.

Io vado madre
se non torno
pensa che sarò un fiore sulla montagna
che tu vedi ogni giorno

Io vado madre
se non torno un giorno
sarò chiuso nel carcere turco
dove si vomita violenza.

Io vado madre
se non torno
la mia anima sarà nelle parole dei poeti. (Talip Haval)

Parlavano spesso della loro terra. Gli mancavano i sapori, gli amici ed i parenti, l'atmosfera allegra delle feste. 

Erano ormai passati più di sette anni da quanto erano sbarcati dall'Ararat, una vecchia carretta che li aveva sballottati per giorni e giorni nel mare. Quando erano scesi Mizgin e Zilan avevano un respiro affannoso, la febbre altissima, non mangiavano niente da giorni. Povere bambine avevano solo pochi anni. Nonostante la corsa all'ospedale era stato tutto inutile. Erano morte tra le braccia della mamma.

Ripensavano spesso a quei giorni, alla paura, alla voglia di fuggire per costruirsi un futuro in qualsiasi parte del mondo dove fosse garantita la libertà di vivere. Mizgin e Zilan non ce l'avevano fatta. Furono avvolte in un lenzuolo bianco e tutto il paese partecipò commosso al funerale. Le famiglie di Badolato si strinsero tutte attorno ai nuovi arrivati, non li lasciarono soli.

"Qualsiasi terra è una speranza per noi" ripeteva Nahzum che aveva conosciuto gli orrori dei turchi e rivedeva gli occhi immobili delle sue bambine. 

Erano stati accolti con grande calore da tutta la popolazione del paese. Il sindaco li aveva sistemati nelle numerose case abbandonate del vecchio centro. Non vi restavano che poche centinaia di persone, il resto si era trasferito al mare a qualche chilometro di distanza. Furono tutti contenti della sistemazione. I nuovi arrivati trovarono ospitalità, i pochi abitanti rimasti risentirono nei vicoli le grida di gioia dei bambini, il vociare degli adulti. Il vecchio borgo abbandonato sembrava tornato a nuova vita. Non era durato a lungo quel periodo allegro e spensierato. 

"Abbiamo trovato grande ospitalità. Un ottimo rapporto con  la popolazione locale. I calabresi hanno la terra, hanno una propria patria, ma non hanno un posto di lavoro. Se non ce n'è per loro anche per noi sarà difficile", continuava a ripetere Nahzum ai suoi.

Dopo il loro arrivo non vi è stato un progetto di integrazione, tutto è stato affidato ai singoli, alle famiglie, alla buona volontà dei sindaci. In pochi hanno trovato la possibilità di restare trovando qualche occupazione in agricoltura, arrangiandosi con qualche lavoro artigianale. E uno alla volta le famiglie ripresero il cammino verso il Nord d'Europa, alla ricerca di parenti che vi si erano insediati da parecchi anni.  In tanti sono partiti per il Nord d'Italia, la Francia e la Germania. 

Alla fine anche Nahzum si vide costretto a lasciare Badolato. Con grande dispiacere riprese il cammino, ma per fortuna dovette attraversare solo la Sila per arrivare ai casali sopra Cosenza. Furono incantati dai grandi pini, dai laghi con l'acqua che rispecchiava il verde intenso tutto intorno. Laggiù era più bello, però... 

All'imbrunire i compagni cominciarono ad arrivare portando ciascuno qualcosa: il pane, un dolce, la pasta al forno, purè di patate e tante altre cose.

La signora Yildiz aveva preparato un paio di piatti tipici del suo paese. Aveva fatto del suo meglio per ottenere un buon cigkofte. In mancanza della carne di cervo si era dovuta accontentare di una capra, di cui aveva scelto con cura la parte più magra macinata finemente.

"Professore, questo è un piatto antichissimo che fu inventato da un cacciatore ai tempi di Abramo. È fatto di carne tritata finemente e speziata con varie erbe. Veramente la carne si deve battere ben bene con una pietra, ma qui non è possibile. Qualche giorno, quando avrò più tempo ve lo preparo proprio all'uso curdo", si scusava con gli ospiti perché gli sembrava che qualcosa non fosse andata come avrebbe voluto.

"Bisogna aggiungere prezzemolo e cipollina fresca tritati finemente. Ma il sapore viene dato dall'ìsat, il nostro peperoncino che è davvero speciale. Per adesso dovete accontentarvi di quello calabrese. Appena qualcuno andrà a Roma al mercatino curdo me lo faccio portare e noterete la differenza."

Per l'occasione Nahzum aveva preparato un kebab, un "Urfa Kebab", il migliore della Turchia come si vantava con tutti. Era una carne infilzata in uno spiedone e cotta a fuoco lento,  molto piccante anche questa.

Passarono tutta la sera a mangiare e a parlare dei rispettivi paesi. Miki è il padre continuavano a vantare i prodotti della loro terra. Il Penèr è Riha è il migliore formaggio che si possa mangiare. "Ma si trova solo in Kurdistan", protestava Nahzum, "questo pecorino gli si avvicina un po', ma l'originale è veramente un'altra cosa ..." 

Nahzum continuava tutto il tempo a parlare con il Prof. Antonio, che gli raccontava mille volte la fantastica azione del figlio, mentre Yildiz ascoltava in silenzio ed ogni tanto guardava con la coda dell'occhio.

"Ce ne sono molti di curdi, in Calabria?"

"Eravamo migliaia. Ora molti sono andati via in cerca di lavoro, anche se tutti avrebbero preferito restare. Se ne sono andati a malincuore. Si portano nel cuore il ricordo della Calabria, una terra magica che gli ricorda i luoghi da dove sono partiti. Siamo rimasti incantati dalla Sila, dal verde e dalla frescura, assomiglia alle nostre montagne, ci ricorda i luoghi dell'infanzia", ripeteva Nahzum. 

"Vi siete trovati bene, qui, Nahzum?"

"Quello che ci ha colpito è il senso dell'ospitalità che abbiamo trovato, che si avvicina alla nostra. Sentiamo  molto vicina la vostra cultura. I curdi in maggioranza sono musulmani, ma molto tolleranti. Vi sono gruppi di altre religioni tra di noi ma non vi sono mai state repressioni o manifestazioni di intolleranza. Cattolici, ortodossi russi, zoroastriani, confuciani tutti possono professare liberamente il proprio culto. Qui non abbiamo avuto alcuna difficoltà ad integrarci. Siamo liberi di professare la nostra fede anche se mancano moschee lo facciamo nelle abitazioni private, riunendoci a gruppi. Ci sentiamo liberi, anche se abbiamo dovuto superare grandi difficoltà".

"Papà, digli come buono il run" , lo incalzava Ahmed, "è un burro, ma non ha niente a che vedere con quello che si trova qui. E l'egmin è un miele di montagna da gusto prelibato". Ahmed non si stancava di vantare il suo paese e le meraviglie che avevano dovuto lasciare. "Il nostro nan è un pane veramente speciale ed il velg, un fegatino delizioso. Per non parlare dei balcanires, le migliori melanzane del mondo con le quali si preparano dei pasticci squisiti".

I suoi compagni lo prendevano in giro per il suo accanimento nel difendere i prodotti della propria terra, protestando che anche in Calabria si trovava ogni ben di Dio ed erano tutti prodotti genuini. Sembrava un discorso tra sordi, ma ciascuno contrapponeva le sue ragioni con allegria. Dopo tanti anni era la prima giornata serena che avevano passato con degli amici. Ricordavano con grande tristezza e serenità le due piccole. Sarebbero signorine adesso. Cantarono tutti insieme "Calabrisella", il tempo era volato in fretta ed ognuno tornò a casa propria.

"Papà, sono felice oggi. È stata una giornata davvero speciale. Vorrei che potessimo restare sempre quà."

"Chissà, Ahmed. Tuo zio ci aspetta ad Heidelberg l'anno prossimo. Abbiamo ancora tempo per decidere."

Terra vietata 

Vietato anche il suo nome.
Bandita la sua lingua.
Strana terra è la mia terra
eppure non è sogno ne fantasma
sono bambini che pascolano bestie
donne di sterco secco
rughe di secoli
volti bruciati dalla solitudine
ma quanti amori vivono
ma quanti iddii si pregano
di tanto in tanto lacera i suoi cieli
un crepitìo meccanico
la mia terra si torce nel dolore … 
(Tratta dal sito http://www.uikionlus.com/)


NOTE

1 - Turdo: termine dialettale per stupido, scemo. È usato in senso dispregiativo.