Continua - Kënga e katertè

Cantò così e poi tacque e come avesse
Da funesto pensier compresa l'alma
Ei men che ad altri, era a se stesso noto
Al momento difficile. Impensato
Intronogli l'orecchio un cupo forte
Fischiante colpo d'archibuso, e valse
A porlo in senno. E soffermato udia
Spiava e protendea per tutto il guardo
Attento, sospettoso: ed era in tutto
Diffuso del silenwio la possanza,
Sol che del bosco sottosposto il lieve
Fremito delle fronde da soave
Vento scomosse con stormir leggero
Gli destavan al cor dolce gradita
Nommai gustata, insolita una gioja.
Movea di tutto, e nuovamente udia
Lo strepitar vicino di persona
Che fra cespugli lenta e dubbiosa
Si avvanzi timidetta. Ei sosta e attento
L'orecchia riprotende di prospetto
Rivolto al gran Farneto di giganti
Crestuti faggi, annose querce, e dritti
Eccelsi cerri, e farnie sperticate
O fiorite o tuttora verdeggianti
Ombrelle a nocciuoletti, ed orni, e frasche
Di varia specie; oppur combuste da alti
Mensili incendî, disfrondate, ritte,
Solitarie, annerite, soprastanti
All'ombra propria, disfidant l'alta
Criniera delle nubi, accanto al fiume,
Ove il muggito degli armenti mille
Echi ripeton fragoroso arcano,
Sublime orrore della piana altrice
Di verdi ulivi ed olî pingui e grano
Ubertosa Rogiano. Qundo dietro
Ei sente un alitar caldo, compresso
Frequente. Si rivolge e mira tutta
Fatta di rosa nella guancia tersa
Del vivo colorito, che venia
Frettolosa Lavinia lampeggiando
Un raggio oltre pensier splendido, vago
Dall'alma sua pupilla. Un solo istante
Glielo fisse nel fronte, e poi siccome
Il sol scolora la brillante spera
Laddove folta ed invidiosa nube
Gli si frapponga innanti all'improvviso,
Scolorava Lavinia, ed immota, e fissa
Al suol col guardo, in abbandono avea
Le mani al seno. La mirava attonito
Marino, e interpretar nonpur sapea
Che dir volesse, e che pensasse, e come
E perché fuori tempo pel boschetto
Colà venuta. Un palpito convulsa
La voce gli rendea. Provossi indarno
Tre volte a dir: Perché? Perché ne vieni? -
Tre volte, e nullo suon la gola emise.
Quando si avvide che Lavinia scema
Fatta di forze, e pallida svenia
Chinandosi qual fior bruciato ed arso
Da calore improvviso cagionato
D'acqua bollente che lo inaffia, e spruzza,
E tremula cadea. Marin vi accorse,
Presa Lavinia per le braccia all'erba
Del margo della via soffice e fresca
L'adagiò, la sostenne a mezza vita
Soffolta alquanto. Ei le slargò dal fianco
Il cinturino del grembiale, e rotti
De' verdi ramoscelli da' fronzuti
Virgulti di querciuole che vicini
Formavan qua e la varî cespugli,
E tutti insieme il bosco: L agitava
A lei d'innanti al fronte, e un venterello
Fresco le risvegliava, per cui forza
Al fin rinvenne, e ritornolle il senno.
Languide ma brillanti appena appena
Levate le pupille soffermolle
Disiose di parola allo smarrito
Volto del cugino. Ei la rinco
Brevemente a parlar mentre le terge
Il sudor della fronte con bianchissimo
Pannolino dall'orlo roseggiante
Constesto in bel telaio e rumoroso
A spola rapidissima volante
Cui anima la man delle vezzose
Polzelle Calabresi dilicate
Dalle vermiglie labbra e dal brunetto
Color che sugge i cuori, alma tua prole,
Salubre Catanzaro. Or ella fioca
Fioca parola assai stentatamente
Dal petto estrasse, e: Nera nera e fitta,
La nube che si affaccia minacciosa
Come da scaricar sul nostro capo
La colma piova di sventure orrenda.
Desto, non é gran tempo il nostro zio
Avidamente chiese ove ti fossi,
Cupido di vederti. Né ristarsi
volle ad indugio alcuno, ed istanza fece
Né cessava chiamarti, e conturbato
Inquieto, pauroso. Niun partito
Vi fu che il persuadesse, onde io vedendo
la tenerezza sua patirne assai,
A rinvenirti e ricondurti al padre
Mi mossi incerta il pié, nommai sognando
Incontro sinistrissimo. Là sotto
La frana della rupe, al cupo fondo
Dello scheggiato masso, al desto lato
Da borea ove dal bosco la codiera
Oltre distesa alla gran selva pone
Delle Pianette, e poi giù per le valli
Al sinuoso inarrivabil cupo
Vallon sopra Malvito e passa: vidi
E udiva insieme, che nell'agitarsi
De' foltissimi cespi, un fremitio
Sommesso si spandeva, e quatto quatto
Moveasi un grupponereggainte e fitto
Da donde a tratti un lucido apparia
Qual di forbita canna di archibuso
Oscillante fuggevole, fuggevole.
Io vidi, il cor tremommi, e palpitante
Le vestigia segui del tuo coturno
Sulla ben nota forma; e fatta presso
Dippiù alla frotta, ho ben distinto quattro
Uomini cui copriva il bruno mento
O foltissima barba, o lunghi baffi:
Si accrebbe il terror mio, e frettolosa
Correa perduta commendando al piede
L'incarco della vita, e senza speme
Di rinvenirti io qui mi trovo. Andiamo
Fuggiam da questo loco insidioso,
Loco sinistro, infausto loco - Ol via
Cessino le paure, e non turbarti
Così, né trarne lagno. Chi potrebbe
levarmiti dal braccio? Un tristo lupo,
A feroce lion cui le più crude
Più perigliose imprese han fatto vezzo
Fruir nel sangue e nelle morti e stragi,
Mal si compara, e forsennato imprende
Inegual troppo e ruinosa lotta.»
Dicea Marino con sorriso secco
Come di morte il fier preludio fatto
A sogghigno di tomba che richiama
Col moto dela lapide, i viventi.
Scrollava il capo, e da vampanti lumi
Insolito di orror un raggio uscia:
Lavinia altro che tema in cuore allora
Non capendo, pensò quel mutamento
D'alta paura mostra; e per la prima
Fiata confidando al cauto labbro
Quel gran desir che più e più volte espresso
Avea per gli occhi, e mai volse affidarlo
A parola melata dubbiosa
Incerta timidetta e accompagnata
Da pallor, da sospetto, e detta appena
Interrotta sommessa in tal qual atto
Che mal si sforza a pennellarlo alcuna
Pittrice mano, o fantasia vivace
Di gran poeta, o di scultor diserto:
Piena d'ardire allor mirollo in viso
E il cuore le balzò per trepidanza
Inopinata di contento; e poi
Sommessamente favellava:
Questa Nommai suppor posso io che la caparra
Fia dell'amor, che fatto in te vetusto,
E forse inesistente in lo cor mio
Non si svelò, benché per voglia io n'arsi:
Non farmi più languir col cuor gelato
Per temenza ed affanno: fuor mi caccia
Da questo loco periglioso: e dolce
Mi fia, viver per te, se pur ti é grato
Ch'io viva e t'ami. Andiam andiam da questo
Gran covo di sventure, e allor la vita
L'animo allor mi tornerà. Sorbire
Allor potrò contento al tuo cospetto
Con lieta fruizion senza paure
Dal labbro tuo, d'amor le brevi e forti
Parole appassionate, e di potere
Irresistibil, magico, incantante».
In questo mentre un sibilo stridente
Improvviso sboccato dalla cresta
Del colle sublimissima, percossa
Da venti che spirar su quei crepacci
Bronzati inaccessibili vestusti
Contrastatori di ogni nuova forza
D'inferno, o d'uom che tenti estrarne l'oro
Che Leda ivi locò con Arimane
Di Santa Venere nel tondo e cavo
Immane sasso: da colà scagliossi
Un truce, fier, carnivoro sparviero
Librato sopra i vanni. Ei cadde a piombo
Fendendo l'aere rapido e furente
Lanciato su d'innocua rondinella,
E ghermitata crudo coll'artiglio
Stringendola nel petto, le figgea
Sitibondo di sangue, il duro adunco
Crudelissimo rostro, e lacerava
Il petto bianco bianco all'infelice.

Vederla, e nuovamente fuor di senno
Andar Lavinia un solo istante fu.
Marino all'omer manco affibbiato
Lo schioppo, la levò di peso, e ratto
Sulle braccia portavala siccome
Fanciul sopito, prediletto caro
Fiore di primo parto, degli amori
Primieri primo frutto, riversato
Traversalmente attenta premurosa,
Stringendole sul petto lieve lieve,
La madre il porta. Ei già veloce, e dietro
Lungo le sponde della strada il verde
Bosco parea che rapido fuggisse:
Il sibilo sentì d'un fischio acuto:
E poscia si levò cupo di frasche
Un rombante fracasso e udiasi, e rotto
Dall'eco della selva a quando a quando
Si ripetea. Tre palle in quel momento
Marino salutar, gli rasentando
Uno la fronte, e l'altra dalle spalle
Bruciavane le vesti, e l'altra via
Portavane il cappello di velluto
Fin dall'estremo del troncato cono
Da su per giù con ampliati cerchi
A lunghissime strisce ben guarnito,
Pendenti al destro lato in largo fascio
Scompigliate dall'omero, e divise
In cento, e cento mobili pendagli:
Arruffarsi i capegli, i brevi peli
De' baffi si rizzar, farsi di bracia
Nel viso, e senza offessa, porre in grambo
All'erba la cugina, e poi lanciarsi
Come lion furente, e ancor più truce
Fatto per gran perigli, e resistenza
Fur un istante. A quattro a quattro i mucchi
Saltava degli sterpi, e i vepri, e i folti
Cespugli dividendo, e lacerando
A gran rumor, l'altro rumor seguia.

Lo schioppo impugna, e con due salti sbalza
Del bosco all'altra sponda opposta al corso
De' suoi nemici. E ritto, ansante, fiëro
Furibondo, impassibile, minace
Sosta colà; mentre dal bosco uscia
A precipite corso scompigliato
Irto di chioma, fosco, irresoluto
Un primo assalitor. Marin di mira
La prende in testa, tira, lampa, coglie
Al fronte il malaccorto, e gliela spacca
In due gran brani, e vuoto di cervella,
Un contraccolpo al sottoposto duro
Macigno, ove precipite ammucchiossi,
Ricevette, e restò fuor del tempo.
Al gran rumor correva un altro, e a fronte
Marin trovossi con pistola in punto
Di tiro, e che stringea con manca mano
Scintillante il pugnal d'impugnatura
Costruita alla sanna di cinghiale
Annoso: ei si lancò bocconi al suolo
Intempestivamente, sulle spalle
Marin gliela scarca, e il traforando
Tra il vomitar del sangue per le nari
Per la bocca, e dal foro pratticato
Al torace, morì lurido fatto
Dal sangue grumo al fango misto. Allora
Tratto di orror! gli stette sopra come
Il fasma della morte a chi si pera
Fuori speranza; e sull'opposto punto
Del capo per la fronte, un grave colpo
Col pié tirogli, e il comprimeo si forte
Che il viso entrovvi, e sprofondossi come
Per trarvi forma, e: Misero, dicea,
Imprenditor di dure imprese, giaci
Cosi fuor l'influsso di speranza».
Alla sventura orribile il coraggio
Mancando agli altri, gir precipitosi
Trepidi, rivoltandosi atterriti,
Guadando il fiume, che di larghi sprazzi
Per ogni parte li bagnava e quasi
Vendetta fea del pié, che calpestava
Le acque, e intorbdandole fuggia.
Entrar la selva di Altemonte e quivi
Spariro tra le piante ombrose e spesse
Di cerri altocrestuti, e di ferrigne,
Annose querce, diramate, e folte
Strette di chioma a chioma a frondi miste
De' frassini lunghissimi e lisciati
Da natura che tutto infiora, e abbella
E da' tigli giganti crepacciati
Dal tempo, e grossi, e dritti, o giovanetti
Specchianti i freschi rami a' paludosi
Laghetti, ove si nutre col merlone
Lo smergo, e la cutretta, e il barbagianni;
Ed incessante il rossignol vi canta
La canzone di amor, che più sonora
Riesce, e melodiosa all'ombra opaca
Che si ripete al sottoposto lago
O al concavo salon di cava grotta
O in cupa volta di scheggiata rupe
O degli alberi sotto le criniere:
E del ruscello al dolce mormorio
Lo stridulo chicciar della pernice,
Unito e allo stridir di capinere
De' pungigliosi calabroni il ronzo,
Fan più solenne e trepidante il loco.
Paura, alto dolor, profonda pena,
Odio di sangue, o brama, e fier rimorso
Per quegli opachi calli a lor segui.
Marin tornò per dentro il bosco, e udia
Lamentevol querela come il prego
Da dietro un gran cespuglio a cui la cresta
Di robusta querciuola, scompigliava
Forandola leggero un zeffiretto:
E' protendea l'orecchio, ed ascoltava,
«Madre, verace madre! almo conforto
De' miserelli, a cui mai non riocorre
Credente indarno: Ah! tu mi lasci in questo
Tremendo istante, abbandonata sola,
Infelice, meschina, oihme! negletta
Dagli uomini e da Dio; preda anelata
Son io dall'empio, l'unghia mi ghermisce
Ormai dall'aspro artiglio e sanguinoso.
Men pur di me, che d'altri, premurosa
Mi volgo a te, col cuor diffuso, e sprso
Supplice sulle labbra; ah! consigliera
Ti nomi e sei benigna, deh! la pace
Consiglia al mio cugin, al mi…ispira
Odio alla nimistà, bando alla cruda
Vendetta sanguinaria, e se mi valse
Offrirti un fiore, o recitarte un ave
Regina salutarti, e ad onor tuo
Usar contrasto al gusto, e compiacente
Non esser si de' vani fasti e pompe,
Se grati fur al tuo bel cuore i miei
Prolungati sospiri, e le proteste
Di puro amor, or tu mi ascolta e volgi
La pupilla del sol via più brillante
E ve' lo stato mio, la mia profonda
Costernazion, l'abbattimento, il negro
Nuvolon che m'ingombra e, lo squarciato
Immenso sen talvolta spalancando,
Un avvenir accenna che minaccia
Di affanni traguggirami: al vasto abbisso
Stendi la man cui l'Infinito afforza,
Stendi la man, e salvami pel tuo
Diletto bambolin, pel decoroso
Titol di consigliera, e salvatrice
E madre universale, e pietosa!»
Dicea LAvinia, e tra le mani avea
In lamina di argento coniata
L'immagine vaghissima di Lei
Cui esaltò l'Eterno a tale e tanta
Grandezza, che si strugge uman pensiero
Indarno a compararla. Avea per sorte
Riscossa tal medaglia, e ne vivea
Più che del suo valor della scolpita
Immaginetta, appassionata vaga
Di Lei, cui simboleggiava ogni figura
Deifico regale della carne
Prescelta, e sublimata oltre le stelle
Per madre a Dio. Aveala come pegno
Nommai fallace, e mostra speciale
Di fidanza ed amor, di speme fatta:
Sicura quasi per segnale offerto
A nobil ricordanza. Fulle sopra
Improvviso Marino, e sorridendo
Le armi scosse: Ella si volse e 'l vide
Scomposto nelle vesti; ma sereno
Nel fronte, e i dondolanti suoi cincinni
Scompigliati dal vento il fean più bello.
Lavinia sconcertata pel contento,
Riposta al volo in petto la medaglia
Del suo cugino, e tacita a caldi occhi
Piangea di gioja. Sollevolla ed ambo
Camminavan a paro sulla via
Che fensi ognor più larga lentamente,
Col braccio suo della cugina il braccio
Esile, e dilicato sostenea
Marino, e all'altro gomito portava
Lo schioppo appeso, e il suo cappello colto
E traforato da una palla. Altissimo
Silenzio imposto alla cugina alquanto
Gli abiti rafazzati, e i negri ciuffi
Riordinati sulla fronte, entrava
Tranquillo e pacatissimo, animate
Le guance d'un color che disvelava
Un illusion sofferta, in casa sua.

Vedeala il padre, e attonito stupia,
Né fea parola. Ma Marino accorto
Prevenne la dimanda: E disse come
Inutilmente quel mattino sperse
Fatica e gran sudor perseguitando
Selvatico, ma bello, un porcellotto
Che tra le fratte gi disperso e i vepri,
Passato a nuoto e fuori tiro il fiume
Alla gora profonda de' mulini.
E il padre a lui. Se tu diletto, io pena
Soffriva e forse ancor nell'ora stessa
Che tu inseguivi il cinghialetto. Oh! troppo
Il cor mi oppresse la insoffribil cruda
Tremenda vision. Pareami e il falso
Dal ver non distinguea, star nella vetta
Del pianerotto sulla pietra assiso,
Che dalla rupe ne corona il picco
Nella maggior sua prominenza: E sotto
Un agitarsi, un rumorar sentia
Greve compresso, e vari corpi trarsi
Insieme, e sparti, e correr dietro a salti
Minacciosi furenti, stretti, fieri
Rumoreggianti, rapidi, in drapello
Pel bosco alcuni armati; e si fuggia
A lor d'innanzi un uomo di sconosciuta
Fisionomia cha a volta a volta indietro
Riguardava, terribile. Ma breve
Sempreppiù la distanza, che fraposta
Era tra lor, faceasi, a duro sforzo
Comprimea del vigor l'estreme e fiacche
Scintille il fuggitivo, e già dell'alma
Men era il corpo stanco ubbidiente:
E quei veloci, ed ei men ratto ognora
Fuggia. Lo rincalzavan più leggeri
Di pié coloro, e l'accerchiavan dentro
Gombrata macchia di pungenti dumi
Intralciati, profondi, e senza varco
Per parte alcuna a scampo: Erano a cerchio
Coloro diffusi, stretti, furiosi
Avvanzatesi sempre, a ferro e foco
Armati e fieramente urlanti: Incerto
Un momento si stette il fuggitivo
Armato ancor. Risolve, impugna, tira
Fragoroso un trombon. Rombò la vlle
A lungo e grave: Dato un salto giuso
Capovolto la terra ribaciava
Colla terra (che l'anima respinta
Partia per la giustizia che non lascia
Impunito delitto) un de' nemici
Che il perseguian feroci: Ei come lampo
Precipitò nel folto della fratta
Spinosa e sparve. Molti colpi addosso
Gli fur tirati, e se fur vuoti o carchi
Di effetto nol saprei. Buon trato sopra
Vi guataro color; or l'uno, or l'altro
Scagliandovi da su dei grossi ciotti
Per la boscaglia colti. Indi dispersi
Gir per la selva e sparvero. Io mirava
Attento se da là di nuovo uscisse
Quel misero! ma più non ricomparve.

Non é mestirer ricordar de' sogni
Lo strano combinar disparatissime
Venture o fatti, di risposta al padre
Marin dicea: Fa spirto, e ti serena
Né ruminar pensieri di figura
Sinistra che rinnovansi dipoi
Quando riposa il corpo, e l'alma veglia
Più libera, e di se fatta signora;

Ma se cagion di tema «ripigliava
Il vecchio prigionier» non mi avess'io
Ben potria star da ta' pensieri scevro.
Ma se i rivali a sangue son cresciuti
In numero maggior, non puossi il core
Viver tranquillo, e respirar sereno
Lo spiro della vita, cui l'impuro
Pestifero alitar de' miei nemici
Salubre meno e periglioso assai
Non pur per me che per i miei lo rende,
Ed omicida forse. Trepidanza
Tanta o padre spegar, non é del tuo
Austero carattere. Hanno i tempi
Un compimento: ma le frutta tutte
Non deggioso cader per trapassata
Maturità nel suol che lo produsse
E risaziarne, le insaziate gorghe.
Colto talun, benché immaturo, forma
Per varietà, sommo talor diletto
Al labbro arsiccio di colui che brama.
Ei se nemici sono, han pur nemici
Implacabili, truci, disiosi
Votarsi di fumante a fresca spuma
Una tazza di sangue. - Mi spaventa
Così brutal linguaggio, mio diletto
Figliuolo: oh! non ferirmi con saette
Insoffribili l'alma, una vendetta
Non ispegne vendetta, ma produce
Multiplice, più fiera, più tenace
Crudele, disertante, un asegquela
Infausta, a cui se fausto il tempo arride
Avrà per campo ad ampia guerra il mondo:
E poi silenzio, tenebre, mancanza
Di vita successiva lasceranno
Squallido prato a' bruti l'alma terra -
Padre ta' vaticini ora sospendi
Se cancellarne nonpatrai l'idea.
Questo momento di ogni mio desire
Corona e meta giunse; un sol pensiero
L'alma mi corrodea: Gustare l cupo
Arcano desolante della tomba,
Privo di quell'idea che perfeziona
L'uman complesso. Della madre appena
«O cruda e insieme bella rimebranza!
Rammento io pur, che a pueril sciocchezza
O naturale impertinenza, mosse,
E lievi schiaffi mi tirando al viso,
Cui io leggero, pertinace, duro
Piangea, ma non sapea sciormi dal lembo
Della gonna di lei, ove appiccato
Con ambe mani mi tenea, fin tanto
Che dall'ira, scoppiando a dolce riso
Mi levò sulle braccia, e lunga pezza
Mi strinse al petto, e per frequenti baci
Affabili, amorosi, ardenti, fece
Vermiglie a me le guance tenerelle
Ah! fuor di quest, ogni altra ricordanza
Sparì come l'immagine tracciata
Sull'arenoso piano all'ampio margo
Del mar portata via da forte vento
O da sifon furioso. Io questa sola
Memoria serbo di quel caro oggetto
Cui chiaman madre, e a cui forse saria
Affibiato in amor, stabile, puro.
Madre! de' mei desiri il dì solenne
Si appressa cupo cupo come quando
Biforcuta dal mar, negra, ferrigna
Nube si eleva, e fatal coda stende
Sull'acqua sottoposta a larga spira
Stringendosi maisempre alla finale
Punte della sua tomba, e dal profondo
Travolge il mar sconvolto e ribollente
Per tutte le direzioni. Ammutolisce
Il fragoroso lido, la corrente
Si arresta. Il verde azzurro un negro assume
Spaventoso, tremendo, e dove caggia
Sulla terra, osul mare, andrà sossopra
Trabalzata per l'aere la contrada
Acquosa od alberata. Muto stetti,
Meditabondo, sofferente, anelo
Di questo dì, cui ti attraversi troppo
Rispettabil barriera ma minata
E sull'azion del foco. Un solo passo
Indietro non andrò, benché movesse
Il ciel, la terra, il mar, coll'aria il foco
Procellose tempeste, e grandinose
Successive buffere, e minacciasse
Travolto inabissarmi al cavo ventre
D'un abisso di orribili ruine
Interminate: or che seconda il tempo
Le mie vendette. Or che sospesa dorme
La legge e fausta arride all'empio, al buono
Non profittar fora delitto - Figlio
Se del mio sangue in te viva si scorge
Energica una stilla, tralignata
Però anzi soverchio, or la vegg'io
Nel fior degli anni io maturava pure
Piani e disegni al bene universale
Cui patrio amor, desio di libertate,
Miglior fortuna mi allettava. Mai
Vendette, o sangue mi gradiro, e sempre
Abborrii l'ingiustizia, e sul mio mabbro
Il favellar dell'empio non udissi:
Stupor grande or me prende, se trasfuso
Un sol non veggo in te, che covi in core
Vendette, e solo sei, tra numeroso
Drappello di nemici. Invochi il cielo
E il cielo ancor deridi. Approvi il tempo
E il tempo non al mal s'apre, ma a pace
Amor fraterno, umane migliorie
Cure di patrio onor; momento ambito,
Cui le scissure spesse han fatto sempre
Difficile, spinosa, alpestre angusta
La via che vi ci mena: e ritentata
Più volte é più con esito infelice
La Diva il cui guadagno ad ogni sforzo
Fu nuova e più robusta catena
A guernimento e sicuranza cruda
Onde spegnesse il fervido desio
Che ognor di emanciparsi ella nutria:
E forse adesso lungi da tal sorte
Non anderà (che nol permetta il cielo)
Se tai qual tu ti sei, altri saranno
Vindici, crudelissimi, efferati
Erranti figli, a singolar sentire.
Oh! lascia i tuoi pensier truci, se fine
Crudele a' giorni miei non brami porre
E trarmi nel sepolcro a forza viva,
Con ria feral categoria di mali.
Marin premea le labbra, e preparava
Acerba altra risposta; quando forte
Nell'uscio si sientì alto fracasso.
La porta splancossi, e dentro entrovvi
Precipite, confusa, sbalordita
Con chioma semisparta, Marianna
Tremula, palpitante, impallidita,
Tramandante dagli occhi un cotal raggio
Che fea paura al cor più duro e forte.
Sforzavasi a parlar, ma nullo accento
La bocca offriva, e d'ogni forza emunta
Si abbandonò su piccola seggiola.
Arricciarsi i capegli al prigioniero,
E Lavinia nel loco ove era assisa
Gelata si restò qual freddo marmo
Cosparsa dal sudor, che le irrorava
Innavertito da per tutti i membri.
Marin sorrise da principio un tale
Sorriso che dicea molte novelle
Arcane, arcane. Ma vedendo il padre
Mutolo ed atterrito e presso al punto
Di cadere convulso, a lui rivolto
Dicea: Padre, che temi? In cor di donna
Una nube che forma capricciosa
Ingenera spvento, alta paura,
Il canto di un uccello, lo schiamazzo
Insolito di un bimbo; la figura
Di alcun'ombra che si agiti; lo striscio
D'un serpe, che attraversa il vuoto largo
D'un infocata via dal sol cocente:
La canicola stessa, il tremolio
Dell'aere accalorato, il silenzioso
Momento meriggiano al trepidante
Cor di fanciulla, un impression funesta
Sovvente fanno. Ma turbarsi un uomo
Saggio, per fole e immagini da sogno,
La é la peggior follia. Poscia rivolto
Alla cugina affabile e soave
Guardandola dicea: Fatti coraggio
Marianna mia, mi di', che mai ti avvenne
Stamane in la campagna? - O fratel mio
Dicea, dalla paura ancora compresa
Marianna: Ei non son fole, che la mente
Elastica per se mi concitaro
Oppur si fero grandi in fantasia.
Dall'aja io m reddia della macchietta
Inseguendo le capre, che le biche
Circuivan del grano si pascendo
Delle tirate spighe, e un gran latrato
Sentia di cani, che si fea più presso
Per ogni istante; e mi pare che fuori
Volessero sboccar da quell'ischeto
Che rade l'acque alla fiumana, e vidi
Un gruppo nerobianco trascinarsi
Da per se sulla terra: io di paura
Gelava, e mi correa da sul ciglione
Della supposta strada, e chiaro ancora
Vieppiù quel mucchio si rendeva: Oh vista!
Che mi percosse? Un lupo di statura
Stragrande, e di pelame colorito
Biondaccio, e cinerino, cui le macchie
Nere sul capo e sulla coda trauce
Rendevano dippiù. Torvo portava
Come fastello agli omeri afferrato
Da crude sanne per la gola un uomo
Da le stracciate viscere e 'l cruento
Cavo torace, l'una mano strisciante
La terra, e l'altra riversata al collo
Dell'animal carnivoro, e co' piedi
Dalle ginocchia in giù, già trascinato,
Lasciando sulla terra in doppia forma
Un'interrotta striscia, or larga, or stretta
Di negro sangue. A gran distanza dietro
Tenenansi i cani, ed incessanti al grido,
Lontano lo spingean dal rifugiarsi
Alla vicina selva: ei varie fiate
Tentò del fiume il guado, e varie indietro
Si ripiegò guatando bieco i cani
Che lo incalzavan fermi. Al fin costretto
Al fiume si lanciò, la correntia
Lo spruzzò, lo contorse, poi sforzollo
All'acqua abbandonarlo, e a tutta pena
Sorregerlo d'un morso; ma nel gorgo
Avvanzatosi più, mal si reggendo,
Col capo fuori l'onda, ognor sbuffando,
Due volte sparve, e due comparve, e un'altra
Gi capovolto rotolando insieme
Alla sua preda. Ricomparve, e vôte
Avea le zanne, e si diresse a nuoto
Nel lido. E fuori uscito all'altra sponda,
Sbuffò, si scosse, e di maggioro volume
Si fé pel pelo che arruffossi, e il dorso
Vieppiù si distinguea colla vellosa
Sua coda lunga e grossa. Era rivolto
Colla delusa vista là su l'acque
Del fiume; e da vicino a salti a salti
Avido si movea lungo la sponda
Se pur di nuovo, egli azzannar potesse
L'ambita preda, e si leccava intanto
Le lorde labbra, e concitava i denti
Per disbramar l'ingordo ventre, e l'ampie
Orrende fauci: e quella tombolando
Trascinata dall'impeto dell'onde
Nel gorgo vorticoso si perdette
Ove nell'Esser mette foce il gonfio
Procelloso l'inverno per tempeste
Sinuoso Ricofolo, e disparve.
Mal mi reggea sulla ginocchia, e pure
Fuggia, e nel fuggir, pareami dietro
Sentir lo scalpitio, dir non saprei
Di chi. Che mi giungesse ei mi parea
Con man di ferro, e via, via più sforzando
Il passo, barcollava pel terrore
Che i nervi mi tagliava, e d'ogni lena
Scema mi fea. Al fin gridando ajuto
De' santi tutelari di mia vita
Mi vidi, e nol so dir come avvenisse
Presso la scala della casa, e appena
Con pié, con mani, inerpicando posso
Montarla, e poi picchiar la porta, indarno
Sforzandomi a gridar, che la paura
Per ogni voce inutile mi dava.
Durante il raccontar di Marianna,
Marino, in aria pensierosa, in terra
Tenea fissato il guardo, poi girollo
Obbliquo intorno, e timido e fuggente
In frugando gli oggetti che guardava,
La cugina guardò soavemente
Alquanto, e poscia il padre, indi dicea:
Mortal sono gli esseri cge stanno
Sul globo della terra, né veruno
Giammai lo creditò per suo retaggio
Eterno, o permanente. Son di morte
I metodi nel cogliere la messe
Varianti e vari. Altri si muor colpito
Da malor violento. Altri consutno
Da lento morbo spegnesi pur come
La luce, a cui finisce l'alimento,
Altri caduto nelle acque spira
Soffogato. E infiniti orridi modi
Tuttora fan presente a noi mortali
La morte, e pur fenomeno crediamo
Il morir, lo sparir; ed ovvia ancora
Vieppiù ci attrista la implacabil morte
Che nosco pur respira, e nosco vive
Per mai morir! Perché turbarci dunque
La vista della morte, a chiaro espressa
Per l'avvanzo di un uom, gelido, e muto?
Il padre lo ascoltava come quello
Che ammira meraviglie, ed é sorpreso
Nel fondo cor, da trepido stupore.
Quindi proruppe: Or peritoso ancora
Non sono io più; nel mondo duraturo
Un ben non é. Parea che si schiudesse
Quantunque tardi, un'alba avventurosa
D'un avvenir migliore annunziatrice,
Da por corona, a' giorni miei molesti
Tra domestica pace, in seno al mio
Prediletto figliuol: ed invidiosa
Un eclissi risveglia i mali miei,
E sventurato spingemi alla tomba.
Da chi, e per che apparasti un cor crudele
A fabbricarti mio Marino? Il male
Sentito al proprio essere, risveglia
Desio di compassion nel cor altrui,
E compatito si allenisce. Il tuo
Beffardo riso per altrui ruina
E' mostra indubia, di un crudel volere.
E pur sulla tua fronte al primo istante
Che io ti rividi, e m abbracciasti, un cenno
Non iscopersi, che additasse a fondo
Un tralgnato cor, fatto covile
Di mal sentir, di mal pensar, di pravi
Disegni desolanti. E' convertito
Il mio fruir, nella più dura pena:
Ei fora men dolor, soffrir nei ceppi
Ansiosi giorni; e al globo della luce
Come ritroso e lento si calasse
Là dietro i monti e con ugual tardanza
Apparisse crescente al nuovo giorno
Guardar la vita intera sempre… Ah! quale
Dolor mi affoga al preveder de' danni
La lugubre congerie che si affaccia
Spaventosa, minace… Oh! mia speranza,
Mio figlio mio conforto a cui protrassi
Io questi giorni estremi, se mi appresti
Con apparecchi men cristiano e grato,
Il loco del sepolcro, almeno il varco
Non vogli aprirmi violento. Ei punto
Non mi sgomenta: ma gettarmi un figlio,
Un figlio prediletto, un figlio! solo,
Un figlio, che del cor sostenne il moto
Che ambiva terminar nelle sue braccia
Lo spiro di canuta senetù,
E' doglia, é cruccio, é pena intolleranda!…
Marin sentiva, era commosso, e appena
Respingeva le lagrime importune.
Vari pensier rotavangli alla mente,
Come quando nel margine dei fiumi
Gagliardo vento ognor rumoreggiando
In vortice si ferma, e rotolone
A cono capo volto, dalla terra
Eleva immenso stuol di sterpi, e grani
Vari di arena, e poscia un nugol denso
Per l'aere li travolge inordinati
Ineleganti, accencanti, turbinosi
Infesti all'uom nommen che alle fronzute
Deboli piante, e agli animali. Pure
Rasserenossi, e volto al padre disse:
Padre, che i' t'ami, ei fora inutil vanto
Il ridirlo: lo sai… Ma ben gnori
Il fato che mi move. Altro da quello
Al certo é l'esser mio, che non appare,
Il vederti, il chiamarti padre, il dirti
Di casa tua la vie, lo abbracciarti
Per un momento, e memore di tempo
Sinistro di sventure e di mordenti
Arcane ricordanze, fu quel tutto
Che lo stadio composei di mia vita,
E l'anello congiunse, che alla tomba
Ci mena dalla cuna. Ah! tosto crudi
Si fero i miei contenti, ed ammantarsi
Del tenebroso solito colore.
E fanmi vivo e mobioe, quantunque
Corroso io sono da sepolcral potenza
Da più, e più anni. E sul mio corpo un tale
Chiodo incantato nella carne fitto
Sol noto a me; che discoprirlo l'arte
E il tempo sperderia chiunque fosse,
Vanamente cercando. E sono spirto
Che reggo in apprenza un grave corpo
Lograto, e già consunto… Ma di loto
Un muccho non sarò pria che la terra
Inpinguata non vegga degli avvanzi
De' miei nemici, e vermigliata, o lorda
Di sangue molto. Come chi battessa
Il mar turbato onde sedarlo, indarno
Ogni opra sperderei che per sviarmi
Usassi del progetto… O padre cura
Morirti decoroso, e vendicato
A somma usura da' sofferti oltraggi
Vecchio vecchio e gloriôso fatto
Dalla sventura mia. Se il ciel si scote,
Non traballa il mio cuore. Il vuoto orrendo
Della tomba é varcato. Un altro vuolsi
Ambito sagrifizio; e designate
Legate, coronate, palpitanti
Le vittime son già». Quando dicea
Marin così, bisunto, scolorato
Lucicante con gl occhi dondolanti
Un mobile chiaror, che se affissaste
Il guardo su di lui, parea che fosse
Diafano, e che il guardo oltre passasse
Le cose a rimirar di opposta parte,
Come da corpo trasparente, al core
Destava alta paura: come quando
A fantasia compresa da terrore In
loco tenebroso par si affaccino
Strette, congiunte, strane, innumerevoli
Accigliate, minaci, orrende, mobili
Di mille forme spaventose immagini
Onde il temuto e van disaggio accrescere
Del pavido. Marino ad un istante
Ridesto il capo scosse, e colla palma
Alcune gocce di sudor si terse
Sul fronte, e ricomparve nel suo viso
L'usata amenitade, il cor diffuso
Di gioja passeggiera e fuggitiva
Qual d'astro, che dell'altro il raggio incontra
Come pensier veloce. Scorse il giorno
Il padre silenzioso si sforzando
Mostrar contento, ed occultar del core
La piaga logorante aspra fatale.
Schiuse l'aurora un infiorato grembo
A più sereni giorni. E nubilosi
Pareano al Prigioniero. Un mese
Non era ancor dal suo ritorno scorso,
E Francesco languia caduto al fondo
Di fisico e morale abbattimento -

Taciturno pertanto e pensieroso
Marino armato di pistola, e schioppo
Lisciando il suo pugnal con pampinosi
Tralci di vite agreste, Ei si venia
Salendo dal boschetto, quando l'ombra
Scendea della montagna, prolungata
Sull'imbrunir al picco della rupe,
Ove solea sedersi respirando
Or l'aere matutino or della sera.
Giunto coà si assise, e intorno vide
Il tutto, poi cantò questa Canzone


Continua - Kënga e pesë

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